«In realtà nessuno ha proposto di modificare il simbolo del Pd, nessuno è impazzito. Si è discusso più modestamente se modificare il logo elettorale per le europee di giugno, per massimizzare il traino della segretaria in tutte le circoscrizioni».

Da responsabile Enti locali Pd, Davide Baruffi è uno degli uomini-chiave della segreteria di Elly Schlein. È anche sottosegretario alla presidenza della giunta in Emilia-Romagna. Dunque anche una delle persone più vicine al presidente della regione, e del partito, Stefano Bonaccini.

La proposta di inserire il nome della segretaria nel logo però ha diviso la segreteria e la direzione. Alla fine Schlein l’ha tolta dal tavolo. Non vi aspettavate questa reazione nel partito?

La segreteria ha affrontato il tema solo due ore prima della direzione: il poco tempo a disposizione, e il fatto che la proposta si sia caricata di una valenza che è andata oltre l’obiettivo, hanno generato un dibattito di cui ha fatto bene Schlein a tenere conto. Ma voglio chiarire una cosa, avendo io convintamente sostenuto al congresso Bonaccini: conosco bene la segretaria, e l’ultima critica che le si può muovere è di voler personalizzare il partito. Tant’è che ha voluto allargare la discussione alla direzione e ha scelto di procedere diversamente da quanto aveva proposto la segreteria. In un partito democratico si fa così. Una cosa così non potrebbe accadere in nessun partito della destra italiana.

Resta che nel Pd affiora un’insofferenza per la scarsa condivisione di scelte importanti anche con gran parte del gruppo dirigente: dalla candidatura di Ilaria Salis alla tessera con gli occhi di Berlinguer, al nome nel simbolo.

Stiamo ai fatti: Salis non è candidata del Pd, il nome sul logo non ci sarà ed Enrico Berlinguer non è una figura divisiva, come non lo sarebbero Aldo Moro o altri padri nobili della Repubblica e delle culture da cui nasce il Pd. Abbiamo appena votato, pressoché all’unanimità, le liste per le europee. Sono liste plurali, dove gli europarlamentari uscenti sono giustamente valorizzati, guidate in tre circoscrizioni su cinque dalla segretaria e dal presidente del partito, dove c’è un’apertura importante alla società insieme ad amministratori di grande qualità come Decaro, Nardella, Gori, Ricci. Si può e si deve senz’altro migliorare, ma è un risultato importante su cui il partito si è unito senza un solo voto contrario.

In Basilicata è arrivata una sconfitta annunciata. Quel lungo travaglio per la scelta del candidato si poteva evitare?

La Basilicata era già governata dalla destra, e faccio le congratulazioni al presidente Bardi per la conferma. Piero Marrese ha fatto una corsa bella e generosa, che ha trainato anche il Pd, che infatti ha quasi raddoppiato il consenso rispetto a cinque anni fa. Ciò detto, ci siamo arrivati tardi e male: si era partiti da una discussione arroccata sui nomi e poi sui veti, che ci ha fatto perdere tre mesi e potenziali alleati. Mentre il centrosinistra che serve è quello che unisce tutte le forze di opposizione alla destra, e candida chi sa unire.

Non è un mistero che si era aperto uno scontro tra Roma e il Pd lucano, così come tra voi e i Cinque stelle che avevano posto un veto su Azione e Italia viva, risultate decisive per Bardi. Chi ha sbagliato?

In Basilicata si era partiti da un tavolo giusto, con tutte le forze del centrosinistra, ma si era poi finiti con un’inchiodatura sul nome di Angelo Chiorazzo, su cui non c’era la disponibilità né di M5s né di Azione. E questo era chiaro già nell’autunno scorso. Uno schema totalmente irragionevole, come abbiamo detto al Pd lucano. Così come è stato un errore il veto su Azione: lo abbiamo detto, e il risultato lo ha confermato.

Il campo largo non vince in Abruzzo e in Basilicata, si rompe in Puglia, e in Piemonte non nasce neanche. L’alleanza con M5s resta la vostra prima opzione?

Lei ha citato le competizioni dove siamo divisi. Io potrei citargliene il doppio dove siamo uniti, nella stragrande maggioranza dei comuni che andranno al voto a giugno, a partire dai capoluoghi di provincia. Il nostro obiettivo è unire tutte le forze alternative alla destra. I veti dei Cinque stelle vanno superati, così come l’ambiguità di altre forze che alla bisogna corrono in soccorso della destra. Se non vogliamo tenerci Meloni e la destra per altri vent’anni, è venuto il momento di fare un passo avanti.

Dentro il Pd si sono divise sia la maggioranza che la minoranza: che conseguenze ci saranno?

Come le ho detto, la direzione di domenica ha votato unita le liste delle europee. Liste dove tanti hanno sostenuto Schlein e tanti hanno sostenuto Bonaccini. Dobbiamo unire il Pd, non le vecchie correnti da una parte e dall’altra. Forse qualcuno non vede di buon occhio la collaborazione tra la segretaria e il presidente del partito, ma è esattamente quello che si aspettano la nostra gente e i nostri elettori.

L’occupazione della Rai, la censura di Scurati: al governo c’è una destra “fascista”?

C’è una destra che non tollera il dissenso e ha pulsioni autoritarie sempre più evidenti. Se la Rai smette di essere un servizio pubblico con la pluralità di voci, e l’antifascismo da cui nasce la Costituzione è un tabù per chi ci governa, c’è un serio problema di qualità della nostra democrazia.

Ma queste scelte toglieranno consenso al governo e alla destra?

Io credo che il consenso si incrinerà, e sempre di più, su altri terreni: dallo smantellamento della sanità pubblica, con liste d’attesa per gli esami sempre più lunghe, al caro bollette e alla benzina alle stelle. Non svelo un segreto se dico che la situazione peggiorerà nei prossimi mesi: hanno fatto una manovra di bilancio per scavallare le europee, ma i conti sono fuori controllo e il nostro paese finirà in infrazione europea, obbligando a nuove tasse o a nuovi tagli della spesa sociale. Non è con la politica dei condoni a ripetizione che la destra rimetterà l’Italia sulla strada giusta. È su questo terreno che sfideremo Meloni, perché il suo governo sta fallendo e sta tradendo le promesse fatte.

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