Giorgia Meloni ha lanciato il suo personale atto di denuncia contro l’Unione europea, lasciando da parte la strategia e facendo parlare la rabbia. Nelle comunicazioni al parlamento prima del Consiglio europeo di giovedì e venerdì, la premier ha definito quella avvenuta in Europa una «conventio ad excludendum» contro l’Italia e il suo governo, dopo che le trattative per i top jobs, i ruoli chiave della Ue, si sono chiuse prima del vertice senza tener conto del parere della premier.

Per questo ha attaccato le intese «fatte nei caminetti» a sostegno di Ursula von der Leyen dai rappresentanti di popolari, liberali e socialisti, tenendo fuori dai giochi i conservatori di Ecr presieduti da Meloni. La loro sarebbe «una visione oligarchica e tecnocratica della società», che non tiene conto «di ciò che i cittadini hanno detto nelle urne». Infine Meloni ha rivendicato di non fare «inciuci con la sinistra né qui né in Europa».

Toni, mimica facciale e postura sono state quelle di una premier non in grado di contenere la frustrazione per essere stata lasciata in un angolo. Che come fallo di reazione ha attaccato l’Europa come istituzione definendola «troppo invasiva» perché pretende di imporre «cosa mangiare, quale auto guidare e in che modo ristrutturare la propria casa», il cui combinato disposto tra «ideologia e burocrazia» ha prodotto astensionismo.

Il distillato di antieuropeismo, con toni simili a quelli usati in campagna elettorale da Matteo Salvini che le sedeva gongolante a fianco, ha smascherato il vero sentimento della premier, immemore del fatto che in Europa l’Italia è osservata speciale.

Nei prossimi cinque anni, volente o nolente, il governo Meloni dovrà fare i conti con quelle stesse istituzioni – dalle trattative sui fondi Pnrr alle inevitabili questioni economiche sul debito – che dopo questo discorso avranno ancora più ragione di diffidare della premier.

Per le stesse ragioni, anche i popolari di Manfred Weber e Antonio Tajani, che erano favorevoli ad aprire il tavolo delle trattative a Ecr, avranno vita difficile a spacciare Meloni come la leader moderata e istituzionale che può essere una interlocutrice privilegiata.

Del resto, la premier non ha nemmeno tentato di dissimulare l’irritazione nei confronti degli altri grandi paesi europei e in particolare dell’asse franco-tedesco, che l’avrebbe tenuta ai margini anche a causa del suo rapporto con l’Ungheria di Viktor Orbán, con cui in realtà i rapporti si sono progressivamente raffreddati: «Sono stufa di un governo rappresentato come impresentabile. È irresponsabile e folle dire di non negoziare con l’Italia».

Con questo biglietto da visita Meloni si presenta al Consiglio europeo, in cui le urla non possono trovare spazio e gli accordi politici sono di fatto già chiusi. L’Italia dunque troverà spazio con la nomina di un commissario di peso, innegabile a un paese fondatore e con la terza economia dell’Unione, ma il malcapitato (il più quotato è il ministro Raffaele Fitto) si troverà a rappresentare un paese percepito come ostile dai vertici di maggioranza.

Mattarella supplente

A fronte di un governo italiano in evidente confusione, per l’ennesima volta è stato necessario l’intervento riparatore del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello stato ha ricevuto al Quirinale la premier e alcuni ministri, e, dalla tradizionale colazione di lavoro che precede il Consiglio europeo, è trapelata la sua voce. «Non si può prescindere dall’Italia» nelle scelte europee, ha detto rimarcando il ruolo centrale svolto in Europa dal nostro paese.

Tuttavia le stesse fonti hanno fatto sapere che il Colle ha sottolineato che non è tra i suoi compiti entrare nelle dinamiche politiche che fanno da sfondo alle trattative in corso in vista dell’attribuzione dei nuovi incarichi. In altre parole: il Colle ha fatto da supplente al governo, cercando di restituire lucidità alla dialettica italiana sul tavolo comunitario. L’interesse del paese è quello di essere interlocutore di tutti, non cedendo a istinti politici di parte che mettono in difficoltà la credibilità nazionale.

Proprio quello che ha sottolineato anche la segretaria del Pd, Elly Schlein, nella sua replica alla Camera dopo l’intervento di Meloni: «Il problema qui non sono le sue personali simpatie o amicizie, il punto è con chi costruire alleanze strategiche per portare a casa risultati per l’Italia e per l’Europa. Il problema è il rischio di isolamento del nostro paese».

Dopo un’ora intera di intervento contro l’Europa che si sta delineando per i prossimi cinque anni, Meloni non ha comunque detto come voterà in Consiglio, ed è ancora tutto da capire il ruolo che giocherà il suo gruppo dei conservatori, colti in contropiede dall’accelerazione della maggioranza pro von der Leyen e anche dalla frammentazione delle altre destre europee in nuovi gruppi.

L’unico risultato ottenuto dalla premier in questo giorno nero in parlamento è stato quello di mostrare ancora una volta che, davanti alle difficoltà, la sua prima reazione è l’istinto di rifugiarsi nel ruolo che le è più congegnale: l’underdog che cannoneggia dai banchi dell’opposizione, incurante del fatto che le sue urla sono anche la voce (inascoltata) del paese.

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