In questi ultimi giorni abbiamo avuto altri esempi di quello strambo fenomeno culturale consolidatosi nello scenario politico post 11 settembre: l’assunzione della difesa di Israele e, per estensione, delle sorti della minoranza ebraica in Europa, da parte della destra postfascista.

I nomi alle nostre latitudini sono noti, sintetizzati nell’amicizia fra Matteo Salvini, convertitosi alla causa nazionalista per motivi elettorali, e l’ex ambasciatore israeliano in Italia Dror Eydar. Ma non si tralasci l’operazione analoga portata avanti da Marine Le Pen, diretta erede dei collaborazionisti di Vichy, in Francia, e da Geert Wilders in Olanda.

Manovre di avvicinamento del resto legittimate in ogni modo dalla leadership di Benjamin Netanyahu, che non ha mancato di portare i peggiori autocrati davanti alla fiamma ardente dello Yad Vashem, fino a suscitare la reazione dello stesso memoriale. Così come, spiace ancor di più dirlo per il ruolo morale che ricoprono i leader religiosi, questo fenomeno culturale è stato a volte assecondato da alcune frange del rabbinato europeo.

Anche qui abbiamo un’immagine simbolo: l’amicizia fra Viktor Orbán e il rabbino Slomó Köves, rabbino capo delle forze armate ungheresi. In queste ore, nel dibattito politico italiano si sono distinte le voci del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti e del generale Roberto Vannacci, candidato della Lega salviniana alle prossime elezioni europee.

Entrambi hanno sentito l’insopprimibile esigenza di esprimersi sulle manifestazioni studentesche pro Palestina che osserviamo in questi giorni. Le parole si commentano da sole: da «andate a zappare la terra» di Foti fino a «le manganellate se le sono andate a cercare» del generale prestato alla politica.

Eppure, non si possono ignorare i toni di queste manifestazioni, con slogan che, nelle nuove vesti dell’antisionismo, attingono direttamente dalla tradizione antigiudaica europea, che ha sempre negato agli ebrei il diritto all’autodeterminazione. Principio oggi concesso a tutti i popoli (palestinesi in primis). Una matrice ideologica ben emersa dallo scempio delle violenze, questa volta non solo verbali, contro le componenti ebraiche nei cortei per il 25 aprile.

Quale sarebbe il legame fra la reazione israeliana a Gaza e la Brigata ebraica che ha contribuito alla lotta di liberazione se non l’essere ebrei? Stessa cosa per la miriade di bandiere palestinesi, come c’era da attendersi assai più numerose delle sparute presenze degli altri anni: perché non quelle di tutti gli altri popoli oggi impegnati in battaglie di liberazione nazionali? Se la presenza di quelle ucraine ha motivi geopolitici evidenti, dove sarebbero quelli di scegliere le bandiere palestinesi e non quelle curde o tibetane?

Il punto di discrimine fra legittima protesta contro la guerra senza scopo che sta conducendo il governo israeliano e l’approfittare del conflitto per far riemergere il peggior antisemitismo occidentale è, a mio parere, quello ben tracciato da Guido Rampoldi nel suo articolo su Domani, che mi pare abbia messo in evidenza come la protesta non può e non deve tramutarsi nella messa in discussione dello Stato ebraico.

Terreno, tra l’altro, che si espone alle propagande di tutti i tipi, anzitutto di quella componente arabo-musulmana che fatica a emanciparsi dalle proprie strutture di pensiero tradizionali, tra cui spicca l’immagine dell’ebreo come dhimmi, termine complesso che riassume un rapporto di subordinazione. Rispetto a quanto scritto da Rampoldi, io mi permetto di aggiungere un tassello: se vuole portare a termine il percorso di revisione critica apertosi col trauma della Shoà, la cultura occidentale deve avere la forza di ripensare quell’universalismo astratto, anche alla base del proprio sguardo umanitario, che ha avuto come appendice culturale il sospetto verso la minoranza ebraica, da sempre resistente a ogni tentativo di assimilazione.

Con conseguenze dirette sul modo in cui si narra Israele, impedendo qualunque lettura politica degli eventi, inevitabilmente fondata sullo schema interno/esterno. Nell’ultimo scambio sul filo della deflagrazione fra Israele e Iran, il Medio Oriente ha nuovamente dimostrato di non volere l’allargamento dello scontro; eliminiamo le premesse affinché non esploda da noi.

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