Quarantotto ore a Washington per il vertice Nato aiuteranno Giorgia Meloni a rimettere insieme le idee, guardando l’Europa dalla giusta distanza. La data cerchiata in calendario, però, rimane quella del 18 luglio, data in cui l’emiciclo di Strasburgo sarà chiamato a votare la nuova presidente della Commissione e Fratelli d’Italia dovrà definitivamente prendere una posizione su Ursula von der Leyen.

Del resto, le elezioni francesi e la sconfitta al secondo turno dell’ultradestra di Marine Le Pen hanno fatto cambiare di nuovo l’orizzonte politico della premier, sia a livello europeo che interno.

Sul fronte dell’Unione europea, la mancata scalata del Rassemblement National poteva essere una notizia non del tutto negativa per Meloni: lo stop imposto a Marine Le Pen - vicinissima a Matteo Salvini, con cui condivide il nuovo gruppo dei Patrioti - poteva essere un buon modo per togliere ulteriori certezze al vicepremier leghista. Tuttavia l’esito del secondo turno ha regalato una seconda vita non solo alla sinistra d’oltralpe, smentendo la tesi meloniana dello spostamento a destra di tutti i grandi paesi europei, ma anche all’odiato Emanuel Macron.

Così il presidente francese, con cui i rapporti sono da tempo ai minimi termini, è tornato in partita anche in Ue con il gruppo dei liberali: l’esito del voto in Francia ha dimostrato che un argine alla destra può essere alzata e l’attuale inquilino dell’Eliseo ha ancora qualche buona carta da giocare sia in casa che a Bruxelles.

In questo scenario, entro il 18 luglio Meloni dovrà infine decidere dove collocarsi ed è davanti a più soluzioni, tutte percorribili ma con inevitabili rischi. Scegliere di votare contro von der Leyen significherebbe mettersi sulla scia dell’ultradestra del nuovo gruppo dei Patrioti, che ha scalzato i Conservatori come terzo gruppo nel parlamento europeo. Votare a favore della candidata popolare, invece, vorrebbe dire esplicitare la propria vicinanza al blocco moderato ed europeista, sperando che in futuro il baricentro si sposti verso Manfred Weber e Antonio Tajani, che rappresentano la sponda destra del Ppe.

Un sì esplicito, però, secondo fonti di FdI sarebbe da escludersi: i voti di FdI sarebbero accettati quasi con stizza e comunque non rivendicati da von der Leyen, anche perchè nella coalizione ufficiale i socialisti si sono detti contrari a questo allargamento, e subire un tale trattamento non sarebbe nell’indole di Meloni. Rimane dunque una terza strada: l’astensione, che dovrebbe rappresentare un passo verso la non belligeranza, con la possibilità di ulteriori avvicinamenti in futuro.

L’unica certezza, per ora, è che il gruppo dei Conservatori di cui Meloni è presidente ha deciso che ogni delegazione nazionale potrà orientarsi come preferisce, ma inevitabilmente i diversi orientamenti peseranno poi nel rafforzare o indebolire il gruppo di Ecr. Proprio questo rischia di essere un passo falso per Meloni, che in questo momento si muove su due piani diversi: da un lato come leader di destra che sta cercando una collocazione; dall’altro come premier italiana che deve rivendicare un ruolo di rilievo nella prossima commissione. E in questo dualismo, fino ad ora, Meloni non ha dato il meglio di sè: aggressiva in parlamento in Italia, in questo momento rischia l’isolamento in Europa.

Tajani o Salvini

Come se lo scenario europeo non fosse abbastanza complicato, anche in Italia l’estate si preannuncia incandescente a livello di governo. Dopo l’esito delle elezioni europee, la Lega è un alleato sempre più riluttante e anche dentro la maggioranza si stanno aprendo le prime crepe, come ha dimostrato l’approvazione dell’autonomia differenziata e le schermaglie tra governatori del nord e dirigenti meridionali di FdI e Forza Italia.

Salvini, poi, è deciso a puntare il tutto per tutto collocando il suo partito a destra di Fratelli d’Italia, in Europa seguendo Le Pen con il gruppo dei Patrioti, in Italia abbracciando le posizioni più estreme come con l’iniziativa di cancellare l’obbligatorietà dei vaccini per i bambini, poi saltata.

Un tentativo disperato di scalata ostile all’elettorato meloniano, è la sensazione dentro FdI, che comunque non perde di vista l’attivismo del vicepremier. Rimasto in silenzio dopo la sconfitta francese, ieri Salvini ha riunito i suoi ministri e sottosegretari, esprimendo «grande soddisfazione» per la nascita del nuovo gruppo europeo e rilanciato con nuovi obiettivi di legislatura: «Aumento di stipendi e riforma delle pensioni, autonomia e premierato, sicurezza e immigrazione».

E ai più attenti non è sfuggito come i primi due obiettivi implicheranno nuove voci di spesa pubblica, proprio nel momento in cui la Finanziaria 2024 si preannuncia magrissima.

A Meloni, dunque, non resta che appoggiarsi al fronte opposto della sua maggioranza: il fido Antonio Tajani, spesso accusato dai suoi di essere sin troppo succube della premier, sta facendo di tutto per aprire a FdI una strada che porti verso il Ppe. Secondo il segretario di FI, questa soluzione gioverebbe sia a Meloni che all’Italia, nell’ottica di poter meglio negoziare deleghe pesanti in commissione.

Anche perché l’esito del voto francese sembrerebbe dargli ragione: la destra estrema non può vincere da sola, quindi deve per forza guardare al centro. Eppure, per ora la premier non intende sciogliere le riserve e prosegue sulla sua strada: rivendicare il fatto che il suo è l’unico governo di un grande paese europeo uscito solido dal voto e ribadire che l’Italia ha diritto a un commissario con ruolo centrale. In attesa di vedere se Ursula von der Leyen centrerà la riconferma.

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