Esattamente un anno fa, nell’afa di una delle pochissime campagne elettorali estive della storia repubblicana, si consumava l’harakiri del centrosinistra italiano, sacrificato sull’altare della divinità totemica dell’agenda Draghi.

Un suicidio pubblico, consumato lentamente e con pervicacia dai suoi leader sui social, negli studi televisivi, nelle direzioni dei partiti, sui giornali; guardato con incredula soddisfazione dagli elettori di centrodestra, con attonita costernazione da quelli di centrosinistra e con distacco se non fastidio dalla restante maggioranza degli italiani. 

Le dimissioni di Draghi

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Il 21 luglio, in conseguenza dell’astensione del Movimento 5 stelle prima al decreto di conversione del decreto aiuti al Senato, che includeva l’inceneritore di Roma, e quindi alla mozione di fiducia al governo, Mario Draghi presenta le dimissioni al presidente della Repubblica che firma lo scioglimento delle camere fissando le elezioni politiche per il 22 settembre.

Dopo fiumi di appelli all’unità, ipotesi di campo largo e la recente esperienza del governo giallorosso, un sentimento di “cupio dissolvi” si impossessa dei principali attori politici del centrosinistra conducendoli nell’arco di pochi giorni a una incredibile serie di errori, incomprensioni, personalismi, polemiche, in barba alle più elementari regole della competizione politica e delle campagne elettorali.

Il cui esito non poteva essere altro che una sconfitta clamorosa nei numeri e storica nella portata, di cui solo ora stiamo iniziando a cogliere effetti e conseguenze. 

La possibilità

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C’è da dire che le premesse non erano ottime. Conte non aveva gradito la sufficienza con cui il presidente del consiglio Mario Draghi aveva risposto all’inizio del mese ai nove punti dell’agenda sociale presentata dal Movimento 5 stelle, e ancor meno l’uscita dal Movimento, da Draghi ben accolta, di Luigi Di Maio alla testa di un nutrito gruppo di parlamentari in soccorso della maggioranza.

Il Pd, da un anno guidato da Enrico Letta succeduto a Nicola Zingaretti dimessosi dichiarando di “vergognarsi del suo partito”, sempre in preda a laceranti convulsioni correntizie, aveva ancora una volta trovato una parvenza di unità nella partecipazione al governo e nell’ergersi a strenuo difensore del rigore economico.

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Carlo Calenda e Matteo Renzi, ufficialmente esponenti di un centrosinistra dai confini e dall’identità molto labili, alle prese con scissioni, uscite e repentine svolte e contro-svolte, davano l’impressione di essere alla ricerca di una collocazione personale, prima ancora che politica.

In questa situazione, con minime variazioni fra loro, i sondaggi di fine luglio indicavano Fratelli d’Italia e il Pd al 23 per cento, Lega al 13 per cento, M5s all’11 per cento, FI 9 per cento, Azione +Europa 3,6 per cento. Indecisi e astenuto 40 per cento. Insomma, le elezioni sembravano ancora contendibili. 

Oltre al fatto che la capacità di invertire una situazione difficile o di svantaggio con una idea o una “visione”, è una delle qualità su cui si valuta la leadership.

Gli occhi della tigre

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Invece a ferragosto le elezioni politiche sono già belle e perse. La prima mossa è di Letta che, mentre invoca “occhi della tigre”, chiude ad ogni ipotesi di alleanza con i Cinque stelle, colpevoli del tradimento dell’agenda Draghi.

La scelta è quella di polarizzare il confronto elettorale in uno scontro a due, “o noi o Meloni”, rilanciato in prima pagina su la Repubblica del 24 luglio.

La convinzione è che una drammatizzazione in nome della costruzione di una diga al pericolo fascista svuoti il bacino elettorale di Conte.

Non capendo che il movimento di Grillo, sebbene sconquassato dalle giravolte governative prima con la Lega, poi con il Pd e infine con Draghi, raccoglie un voto non popolare, bensì popolano, che il Pd non è in grado di intercettare.

Un’alleanza possibile?

La direzione del Pd del 26 luglio approva all’unanimità la relazione di Letta che prevede una “lista aperta ed espansiva”, con l’esclusione del M5s.

È lecito supporre – e molti giornalisti hanno nei mesi a seguire sostenuto questa tesi – che Conte, intento a fermare buttandosi a sinistra il disfacimento di quello che solo nel 2013 era risultato il  primo partito italiano, non sia così ansioso di un abbraccio strategico e programmatico con il principale partito concorrente.

Sta di fatto che la posizione del Pd non dà al leader Cinque stelle nemmeno l’incombenza di rifiutare. Due giorni dopo Letta sottoscrive un accordo elettorale, al momento privato, con Calenda, il quale prima cannoneggia l’ipotesi “aperta ed espansiva” dell’alleato definendo Sinistra italiana e Europa verde “frattaglie di sinistra”, quindi accoglie ai vertici di Azione Mariastella Gelmini e Mara Carfagna fuoriuscite da Forza Italia.  

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Nei giorni a seguire le stesse forze che da un lato pongono veti ed esclusioni, invocano un “fronte unito repubblicano” contro il pericolo neofascista.

Il 29 luglio Letta annuncia la costituzione di una lista congiunta fra Pd, Articolo Uno, Psi e Demos che dovrebbe essere il nucleo portante di una coalizione per l’appunto “aperta ed espansiva”. Ma non sarà così.

Accordi elettorali

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A inizio agosto la slavina si muove rapidamente. Il 2 agosto l’accordo fra Letta e Calenda è reso pubblico e immortalato nella fotografia dell’abbraccio che rimane una delle icone visive della campagna elettorale del 2022.

Il 3, sono Fratoianni e Bonelli a farsi sentire, chiedendo che il riferimento al rispetto dell’agenda Draghi venga tolto dalla piattaforma elettorale.

Nel frattempo in barba a ogni principio di decoro istituzionale i protagonisti di questa storia, nessuno escluso, si sbeffeggiano, irridono, provocano sui social, portando a parlare di “intifada digitale” e clima da “asilo Mariuccia”.

Dopo un tira e molla e continui rinvii, il 6 agosto l’alleanza Verdi-Sinistra italiana aderisce alla coalizione dei Democratici e Progressisti e con essa anche Impegno civico di Di Maio, che grazie all’alleanza con il Centro democratico di Bruno Tabacci non deve raccogliere le firme.

Come viene spiegato dallo stesso Letta alcuni giorni dopo, si tratta però di accordi elettorali e non di governo. Insomma, uniti per prendere i voti, ma non per governare. L’impressione che si stia eccedendo tanto in apertura, quanto in espansività, senza definire l’identità e i caposaldi programmatici della coalizione, è a questo punto più che un legittimo sospetto. 

La rottura di Calenda

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A dare un ulteriore colpo, il più spettacolare, alle aspettative elettorali del centrosinistra ci pensa Carlo Calenda che il 7 agosto, in diretta televisiva ospite di Lucia Annunziata, con la voce rotta dall’emozione così annuncia la rottura del patto elettorale: «La decisione più sofferta della mia carriera politica».

Letta, presumibilmente basito, scrive su Twitter di tradimento della parola data e di lesa onorabilità. Emma Bonino rompe l’alleanza già stipulata con Calenda. Renzi esulta e pochi giorni dopo si allea con Azione proclamandosi “Terzo polo”.

Conte dichiara: siamo noi la vera sinistra italiana. Il 9 agosto i sondaggi danno il centrodestra sopra il 45 per cento e il centrosinistra sotto il 30 per cento.

La disfatta

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La campagna elettorale inizia ufficialmente il 26 agosto, ma oramai i giochi sono fatti, l’harakiri è compiuto. Il resto è una lunga e inutile sequenza di appelli, dichiarazioni, polemiche, attacchi, in un vano tentativo di rincorsa da parte di leader privi della capacità di cambiare, seppure tardivamente, strategia e prospettiva, e  sordi a ogni invito, anche di fronte all’evidenza della debacle in arrivo.  

Gli elettori di sinistra avrebbero voluto leader capaci di elaborare congiuntamente un progetto politico, un’idea di paese, una visione di futuro, in nome dei quali unirsi, impegnarsi, combattere e, magari, vincere.

A un anno da quella disfatta – che non hanno dimenticato – la parabola politica dei protagonisti è sotto gli occhi di tutti, e i nuovi leader non sono stati ancora trovati. E questo, di fronte alla pochezza degli avversari, è forse ancora più grave.

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