L’accampamento pro Palestina alla Columbia University ha finalmente messo nella giusta prospettiva, internazionale e generazionale, anche le analoghe proteste degli studenti italiani. Forse i fatti di New York consentiranno di sprovincializzare un po’ il dibattito di casa nostra, che fatica a cogliere gli elementi di novità di questa ondata di manifestazioni contro la guerra a Gaza. Queste dimostrazioni, seppure riguardando una minoranza di studenti, le cosiddette “minoranze attive”, esprimono sensibilità ampiamente diffuse tra i giovani italiani. Negli ultimi mesi le nostre università hanno conosciuto una mobilitazione senza precedenti da diversi anni a questa parte. Le manifestazioni pro Palestina, però, sono solo gli episodi più recenti.

Nei mesi precedenti, infatti, le contestazioni avevano riguardato i temi dell’antifascismo, degli abusi, dei femminicidi e del cambiamento climatico. Palestina, antifascismo, parità di genere, ambientalismo sono infatti alcune delle tematiche, identitarie e distintive, di una generazione che si sta politicizzando sempre più. Alla luce di ciò, quello che colpisce nel dibattito pubblico è la completa assenza di una riflessione sulla condizione dei giovani in Italia e i motivi che alimentano le loro proteste. L’anno scorso l’Istat ha certificato il loro disagio, evidenziando come ben 4,8 milioni di persone tra i 18 e i 34 anni risultano deprivati. Perché, dunque, stupirsi se si mobilitano e protestano?

Ostilità del governo

Fin dal suo insediamento, l’attuale governo di destra-centro ha manifestato nei confronti di queste proteste e delle forme “non convenzionali” di partecipazione e di intrattenimento dei giovani un atteggiamento di aperta ostilità, tendente alla criminalizzazione. Basti pensare al decreto anti rave, all’inasprimento delle pene contro i cosiddetti “eco-vandali” e agli allarmi lanciati sul rischio di una deriva terroristica delle proteste studentesche.

Non va poi dimenticato che diverse di queste manifestazioni hanno suscitato una reazione decisamente sproporzionata da parte delle forze dell’ordine. A ciò si è aggiunta un’accesa campagna di stampa lanciata contro le università che hanno sollevato perplessità sull’opportunità, in questo periodo di guerra, di nuovi accordi di collaborazione con le università israeliane.

Molti commentatori hanno accusato queste posizioni di antisemitismo e deprecato i “cedimenti accademici” nei confronti di minoranze di estremisti. Alcuni di essi sono arrivati a mettere in discussione il decentramento e l’autonomia universitaria, auspicando un ritorno a un controllo politico centralizzato degli atenei.

A giudicare dai titoli di molti articoli apparsi nelle ultime settimane sui quotidiani, le università italiane verserebbero in una profonda crisi e nel caos più assoluto per colpa, da un lato, di rettori e “docenti-Don Abbondio” e, dall’altro, di minoranze ideologizzate e violente.

Questa narrazione allarmistica è profondamente distorta e contraddetta da numerosi indicatori. Non ultimi i ranking internazionali che, proprio nelle scorse settimane, hanno certificato lo stato di “buona salute” delle nostre università. Anche la reputazione (e la dignità) degli accademici sembra tutt’altro che compromessa. Un recente sondaggio, condotto dal Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino, attesta che il 74 per cento degli italiani nutre fiducia nei confronti delle istituzioni universitarie e di ricerca. Tra gli studenti con più di 18 anni si sale addirittura all’80 per cento. In una epoca di profonda sfiducia istituzionale, i “picconatori” dell’accademia dovrebbero soffermarsi a riflettere su questi dati.

Dignità

Jhumpa Lahiri, sul Corriere della Sera, a proposito delle proteste alla Columbia University, ha ricordato la riflessione di Primo Levi sul dissenso. Vale la pena di rileggere questo passaggio tratto da Il sistema periodico: «Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze (...). Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale».

La diversità che oggi si esprime nelle proteste giovanili, perciò, non può essere ridotta a un problema di ordine pubblico. E chi dialoga con gli studenti che protestano, chi si apre al confronto con loro, anche aspro, non può essere accusato di “mancare di dignità”. È piuttosto vero il contrario. Perché sono la “dignità dei manganelli”, la protesta violenta, il fanatismo e l’intolleranza a incarnare la mancanza di coraggio. Quello necessario al dialogo e al dissenso non violento.

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