Sono le 6.30 del 7 ottobre 2023, Naama è già sveglia. Come tutti i sabato mattina suo marito si sta preparando per andare a correre sulla spiaggia di Tel Aviv.

Qualcosa però lo frena, sente il rumore delle sirene, poi dei raid aerei. Naama accende la televisione e capisce che sta succedendo qualcosa di brutto che non era mai accaduto prima. Gli aggiornamenti sull’attacco di Hamas allo Stato ebraico crescono poco a poco, notizia dopo notizia, nelle parole dei conduttori del telegiornale, fino a costruire una nuova fase del conflitto israelo-palestinese. Naama Barak è una psicologa, vive a Tel Aviv con la sua famiglia. Ha due figlie di 26 e 22 anni e un figlio più piccolo di 17. È un’attivista di Women Wage Peace, un’organizzazione di donne israeliane che lavora per una risoluzione del conflitto insieme a Women of the Sun, un’associazione femminista palestinese con sede a Betlemme. I due gruppi fanno parte di una rete più grande: Alliance for Middle East Peace, che include oltre 164 organizzazioni.

La responsabile regionale è Nivine Sandouka, 41 anni, attivista palestinese, cresciuta a Shu’fat, un quartiere di Gerusalemme Est. «Sono una madre single di un ragazzo che ha quasi 14 anni. Sono musulmana, ma ho frequentato una scuola cattolica a Gerusalemme», racconta Nivine. «Volevo studiare medicina perché in ogni famiglia palestinese deve esserci un medico o un avvocato, è legato alla nostra storia come popolo, crediamo che l’istruzione sia un modo per costruire il nostro Stato. Tuttavia, avrei dovuto frequentare un’università israeliana, e per accedervi bisognava passare ogni giorno i controlli di sicurezza, quindi ho studiato scienze all’Università di Betlemme. Era il periodo della Seconda intifada, nei primi anni Duemila. Ho iniziato a fare volontariato in alcune organizzazioni della società civile e ho scoperto la mia passione: aiutare il mio popolo, fare qualcosa per le ragazze palestinesi».

Il corpo

Le donne sono le prime vittime di ogni conflitto. Sono le madri che piangono i figli uccisi in battaglia, le figlie che crescono senza padri, il bottino di guerra dei combattenti. I loro corpi non sono come quelli degli uomini. Sebbene la resilienza mentale sia uguale o maggiore a quella maschile, il corpo femminile è biologicamente esposto a difficoltà più grandi.

Una dottoressa di Msf, che lavora a Gaza, ha raccontato che a causa della mancanza di acqua pulita e di prodotti igienici, ma anche per i continui spostamenti per sfuggire ai bombardamenti, molte donne assumono un farmaco chiamato noretisterone per ritardare il ciclo mestruale. Dosaggi sbagliati a lungo temine possono causare trombosi venosa e arteriosa. «Non hanno un bagno pulito dove possono soddisfare le loro necessità mestruali, lo condividono con molte altre persone, non solo membri della famiglia, ma anche estranei», spiega Nivine.

«Non hanno privacy, e le donne che portano il velo sono costrette a indossarlo tutto il tempo». La salute delle donne e dei loro figli è aggravata dalla situazione di carestia a Gaza. La mancanza di cibo espone le donne incinte e le madri che allattano a maggiori rischi di riduzione delle funzioni immunitarie. «I bambini per sopravvivere mangiano cibo per animali. Ci sono donne a Gaza che sperano che i loro figli vengano uccisi da una bomba piuttosto che dalla fame», dice Nivine.

«Scrivono sulle braccia dei figli il loro nome in modo che possano individuarli nel caso morissero durante un bombardamento. È una cosa difficile da considerare per qualsiasi madre, ed è una mentalità, un modo di pensare diverso da quello di un uomo». La sensazione di insicurezza, la mancanza di privacy e di igiene mestruale è una situazione che stanno vivendo anche le giovani donne israeliane che si trovano nei tunnel di Hamas. «Le mie figlie hanno l’età delle ragazze che sono state sequestrate durante il rave di Re’im, una di loro si chiama Naama, come me. Ci penso tutti i giorni. Sono passati nove mesi dal 7 ottobre, sappiamo tutti che cosa significa. Nessuno ha delle informazioni certe su quello che accade nei tunnel di Hamas, tantomeno io, ma l’opinione pubblica israeliana presume che alcune donne stuprate dai combattenti possano essere rimaste incinte. Si tratta di un trauma che va oltre la comprensione», dice Naama.

A gennaio, il New York Post scriveva che negli ospedali israeliani i ginecologi si stavano preparando alla possibilità che alcune donne tenute in ostaggio da Hamas potessero essere in gravidanza dopo essere state stuprate dai combattenti. Gli specialisti si sarebbero chiesti come gestire la situazione nel caso fossero state rilasciate. «Senza un’immediata assistenza medica, le donne che potrebbero essere rimaste incinte durante la prigionia di Hamas rischiano di incorrere in complicazioni mediche dovute ad aborti tardivi e ai rischi per la salute derivanti dall’immunosoppressione che si verifica durante la gestazione», spiegava il presidente dell’Associazione israeliana dei medici Hagai Levine alla testata statunitense.

«Il popolo palestinese pensa che Hamas segua un’agenda islamica, per cui anche quando sei in guerra non dovresti fare del male a donne e bambini. Io, invece, credo che sul campo di battaglia possa succedere di tutto», dice Nivine. «C’è un video che è stato pubblicato sui social in cui si vede un combattente di Hamas molestare una ragazza presa in ostaggio. Se guardiamo i commenti sotto questo contenuto, capiamo che c’è una totale negazione da parte dei palestinesi, incluse le donne, rispetto alle violenze commesse da Hamas. E quando guardano i volti degli ostaggi liberati – che appaiono in buone condizioni fisiche – si chiedono: che dire dei palestinesi nelle carceri israeliane? Perché non si parla delle donne violentate dai soldati israeliani a Gaza e in Cisgiordania? Quindi da un lato abbiamo le donne israeliane che si chiedono perché le organizzazioni umanitarie internazionali e palestinesi non affrontino il tema delle violenze sessuali commesse dai militanti di Hamas e dall’altro le donne palestinesi che si domandano perché le femministe israeliane non parlino degli abusi perpetrati dalle autorità israeliane».

Un rapporto delle Nazioni unite – pubblicato il 19 febbraio 2024 – ha rivelato che diverse prigioniere palestinesi nelle carceri israeliane sono state abusate dalle guardie. Inoltre, emerge che alcune donne nei territori occupati dallo Stato ebraico siano state discriminate e picchiate dagli estremisti israeliani semplicemente perché indossavano l’hijab.

Questa situazione ha anche un impatto economico sulle donne che vivono nella West Bank.

«La maggior parte dei lavori offerti dallo Stato israeliano sono a Gerusalemme Ovest e richiedono di conoscere l’ebraico e di spostarsi in quella parte della città. Molte di loro hanno paura. Io non indosso il velo, ma mia madre sì. Non voglio che vada a Gerusalemme Ovest perché temo per la sua sicurezza», racconta Nivine.

Elemosina

«Ci sono donne che chiedono sui social media aiuto economico perché non hanno i soldi per comprare il latte per i loro bambini. Gli uomini non farebbero mai l’elemosina su X, ma le donne sì, perché una madre deve pensare a come nutrire i suoi figli».

Ci sono diversi livelli di sfide per le donne palestinesi, da una parte devono preoccuparsi della violenza dei coloni israeliani, dall’altra di quella dei loro mariti, frustrati perché dall’inizio della guerra hanno perso il lavoro. «Sappiamo che cosa sta accadendo. Sappiamo della violenza e della discriminazione nei confronti delle donne palestinesi da parte di alcune autorità israeliane, sono cose che dovremo affrontare», dice Naama. «Il fatto che queste cose accadano è il motivo per cui noi e Women of the Sun siamo qui, però non possiamo rischiare di rimanere bloccate a incolparci per gli abusi commessi dagli uomini israeliani e da quelli palestinesi. Non andremmo avanti. È molto difficile tenere insieme i pezzi anche tra di noi in questo momento».

Nivine Sandouka e Naama Barak spiegano che le donne palestinesi e quelle israeliane non possono incontrarsi da nessuna parte in Palestina o in Israele e che per lavorare per la pace sono costrette a organizzare meeting su Zoom o all’estero. Attualmente la comunità internazionale non sta contribuendo abbastanza per aiutare i peace builder locali. Per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese da parte dei peace builder locali sono stati stanziati meno di 4 dollari a persona. «Sono nata qui, non sento di avere un altro posto dove andare», dice Naama. «Anche le donne palestinesi sono nate qui, nessuna di noi deve andare da nessuna parte». «Dobbiamo riconciliarci come equi», dice Nivine. «Non come vittime e carnefici, non come occupati e occupanti».

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