Lo scandalo che ha coinvolto Clearview AI risale al 2020 ed è emerso grazie a un’inchiesta del New York Times. La start up aveva collezionato (in termini tecnici si parla di scraping ndr) miliardi di foto di volti prese da Internet e dai siti di social media come Facebook e Instagram con l’obiettivo di sviluppare e vendere a privati un sistema di riconoscimento facciale. Software che danno la possibilità di identificare un soggetto a partire da una fotografia o dal frame di un video, anche quando sono incensurati. Motivo per cui le forze dell’ordine di alcuni paesi l’avevano comprato.

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta giornalistica le cause sono spuntate come funghi in tutti gli Stati Uniti, ben dodici in cinque distretti. Nessuna delle persone i cui volti sono stati illecitamente collezionati aveva infatti espresso il consenso a questa raccolta.

I querelanti sono diventati talmente tanti che alla fine si sono raggruppati tutti in un’unica class action contro l’azienda, accusata di violazione della privacy. Un contenzioso civile che si è rilevato particolarmente complesso sia per la quantità di individui da risarcire, sia per questioni economiche: come si legge nella proposta di accordo depositata in tribunale dagli avvocati della difesa e visionata da Domani, Clearview AI «ha poche risorse e non può assolutamente pagare l’importo di denaro necessario per il risarcimento».

L’accordo

Per questo motivo l’azienda e i querelanti «sono rimasti intrappolati insieme su una nave che affondava». «Il contenzioso avrebbe mandato in bancarotta Clearview AI prima che il caso arrivasse in tribunale, senza lasciare nulla ai membri della class action» si legge nel documento.

L’azienda ha dunque accettato l’accordo proposto dalla difesa, impegnandosi a vendere una quota aziendale del 23 per cento ai cittadini americani coinvolti nella causa. Una percentuale che si concretizza in 52 milioni di dollari se si considera il valore attuale della società: 225 milioni di dollari. Stima che potrebbe aumentare in futuro, visto che i querelanti aspettano che la Corte emetta ora un’ordinanza per concedere l’approvazione preliminare dell’accordo e che venga fissata un’udienza finale.

Altro scenario è quello in cui Clearview AI diventi pubblica o venga acquisita, situazione in cui la cifra del risarcimento diminuirebbe. Secondo l’accordo in questo caso «fino al 30 settembre 2017 i membri della class action potrebbero scegliere di chiedere il 17 per cento delle entrate di Clearview AI, che sarebbe tenuta a mantenerle da parte».

Soluzione creativa

Insomma, una strategia che gli economisti anglosassoni definirebbero win-win: da una parte mette un punto al contenzioso, dall’altra evita il fallimento dell’azienda in grado così di risarcire le vittime.

«Una risoluzione creativa – scrivono gli avvocati nell’accordo – che lascia il respiro necessario a Clearview AI per acquisire valore», che poi sarà distribuito a quei querelanti che diventeranno azionisti. L’entusiasmo degli avvocati, che nell’accordo definiscono il risultato «straordinario date le difficoltà del contenzioso e la mancanza di fondi», ha ragion d’essere se si guarda a simili risarcimenti ottenuti in passato.

I fondi di compensazione contro aziende tecnologiche come Facebook, Google, TikTok e Snapchat si sono sempre attestati sotto l’1 per cento della capitalizzazione delle aziende. Nel caso Rivera contro Google del 2019 ad esempio, l’azienda si è ritrovata in tribunale per aver violato una legge federale sulla privacy (la Illinois’ Biometric Information Privacy Act, BIPA). Google ha raccolto e archiviato dati biometrici di individui che risiedevano nello stato, poi apparsi nel servizio di condivisione Google Foto senza consenso.

In quel caso il fondo di compensazione ha raggiunto la cifra di 100 milioni di dollari, al netto degli onorari degli avvocati e delle spese giudiziarie. Una goccia nel grande mare di profitti di Google, praticamente lo 0,01 per cento del valore dell’azienda.

Nello stesso anno ventuno cause contro la cinese TikTok sono diventate una class action contro la società, accusata di violazione della privacy e raccolta di dati biometrici, informazioni di geolocalizzazione e dati personali attraverso le filiali di ByteDance—TikTok, Inc. (in precedenza Musical.ly, Inc.), TikTok, Ltd., ByteDance Inc ., e Beijing ByteDance Technology Co., Ltd.. Alla fine il contenzioso ha portato a un risarcimento di 92 milioni di dollari, anche questa volta pari a meno dell’1 per cento della valutazione della società.

E così anche nel caso Boone contro Snap Inc. (precedentemente conosciuta come Snapchat) del 2022, in cui due donne statunitensi e una persona minorenne hanno portato in tribunale la società accusandola di violazione della privacy e ottenendo un risarcimento da 35 milioni di dollari. Anche stavolta meno dell’1 per cento della capitalizzazione aziendale.

Un problema più grande

Gli avvocati chiedono al giudice di ufficializzare l’accordo accettato da Clearview AI poiché, si legge, «anche se la proposta richiede un pagamento ritardato, i membri della class action riceveranno il compenso probabilmente prima di qualsiasi sentenza».

Andare avanti con il contenzioso potrebbe infatti portare a lungaggini processuali e dunque a ridurre o addirittura a eliminare il risarcimento. Se l’accordo dovesse saltare gli avvocati sono infatti abbastanza certi che l’azienda possa impugnare una sentenza di risarcimento multimilionario ricorrendo in appello.

Ciò che però questi accordi nascondono sotto il tappeto è una questione ben più grande. Bastano dei risarcimenti, anche molto alti, per chiudere una partita così importante come quella della raccolta indiscriminata e senza consenso di dati biometrici e personali di individui? Almeno in Europa, le pronunce di varie autorità per la protezione dei dati personali e lo stesso regolamento Gdpr suggeriscono di no. La soluzione americana lascia infatti il campo a una normalizzazione della sorveglianza di massa da parte di aziende private.

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