La pubblicazione del rapporto di previsione autunnale del Centro Studi di Confindustria sull’andamento dell’economia italiana evidenzia la fragilità della “Melonomics”, già denunciata da Emanuele Felice su questo quotidiano.

Non solo le previsioni di crescita risultano inferiori alle aspettative, ma rimangono irrisolti nodi strutturali che frenano la competitività italiana, come l’alto costo dell’energia e degli affitti, il calo demografico, la carenza di manodopera, la crisi nel settore dell’auto e le difficoltà nella transizione ecologica.

A due anni dall’insediamento del governo Meloni, è difficile individuare misure innovative che possano guidare l’Italia fuori dal declino. Anzi, sembra prevalere una strategia che guarda al passato: la riduzione delle tasse, l’abbattimento della progressività fiscale (fino alla proposta ambiziosa della flat tax), uniti a condoni e scarsa lotta all’evasione, rappresentano le principali misure proposte.

A ciò si aggiungono lo smantellamento del Reddito di cittadinanza e una feroce opposizione all’immigrazione. Le idee sul fronte economico si riducono essenzialmente a due: ridurre le tasse per imprese e famiglie a basso reddito, sperando di rilanciare investimenti e consumi; riportare al lavoro chi è etichettato come un “povero fannullone”.

Tuttavia, è ingenuo credere che una versione aggiornata e aggiustata della trickle-down economics possa rilanciare un paese che, negli ultimi 30 anni, ha perso il passo tenuto dal resto dell’Europa. Nel 1995, il Pil pro capite italiano superava la media europea (126 contro 100), ma poi è iniziata una parabola discendente, accelerata dalle crisi degli anni Duemila. Nel 2020, con la pandemia, ha toccato il minimo, scendendo a 93 punti rispetto alla media Ue.

I segnali positivi

Se la destra non offre soluzioni efficaci, dall’opposizione non emergono proposte chiare. Tuttavia, alcuni spunti per una visione diversa del paese si possono cogliere proprio negli andamenti dell’economia. Negli ultimi anni, l’Italia ha mostrato segni di ripresa: dopo la pandemia, il Pil pro capite è cresciuto di 5 punti, superando Francia, Germania e Spagna in termini di crescita economica, come ricordato dal presidente Mattarella. Questo progresso sembra riflettere un rimbalzo congiunturale, ma anche un aggiustamento strutturale, soprattutto nel settore industriale.

Nonostante il rapporto di Confindustria metta in luce le difficoltà degli ultimi due anni, l’Italia rimane la seconda economia manifatturiera d’Europa. La crisi del 2008-2013 ha rappresentato un vero game-changer, accelerando un cambiamento del modello competitivo che, in parte, era già in atto.

Secondo i dati della Commissione europea, la percentuale di imprese italiane classificate come innovative è cresciuta dal 35 per cento del 2006 al 63 per cento del 2018, avvicinandosi alla Germania. Nel 2022, pur con un lieve calo, la loro entità resta sopra la media europea. Le buone performance italiane sono evidenti nell’export e nella redditività delle imprese: nel 2020, l’Italia ha raggiunto il secondo posto mondiale nell’export manifatturiero, subito dopo la Germania.

Nel 2022, detenevamo il primato mondiale in due settori (abbigliamento, cuoio-pelletteria e calzature), e la seconda posizione in altri due (tessile; meccanica non elettronica), raggiungendo la terza o quarta posizione in altri quattro settori (componenti elettronici, manufatti di base, prodotti vari, mezzi di trasporto). Questi risultati sono confermati dalle classifiche del Financial Times, che monitorano le 1.000 aziende europee con il più alto tasso di crescita in un triennio.

Dal 2020, l’Italia è al primo posto con 303 imprese, superando Germania e Regno Unito. Anche sul fronte della digitalizzazione, l’Italia ha compiuto progressi significativi: tra il 2017 e il 2022 è passata dalla 20ª all’8ª posizione in Europa per quanto riguarda le imprese e dal 23° al 7° posto per la connettività.

I ritardi

Nonostante questi segnali positivi, la ripresa dell’Italia dopo la recessione è stata lenta. Solo nel 2023 il Pil ha recuperato i livelli pre crisi del 2007, mentre Germania e Francia hanno visto crescere le loro economie del 15 per cento nello stesso periodo. La manifattura, che rappresenta solo il 17 per cento del valore aggiunto, ha registrato una buona dinamica, ma i servizi sono rimasti indietro, con una crescita inferiore di 20 punti rispetto alla Germania e di 10 rispetto alla media europea.

L’economia italiana ha sofferto per la contrazione della domanda interna e la compressione dei consumi delle famiglie, accentuata dalle politiche di austerità, dalla crescente precarizzazione del mercato del lavoro e dal contenimento dei salari, soprattutto nei servizi. Inoltre, il sistema di innovazione del Paese rimane debole, con investimenti insufficienti nella formazione avanzata e nella ricerca e sviluppo.

Le strategie

In sintesi, l’Italia resta fragile dal punto di vista economico e in ritardo sul fronte del welfare state, con una ridotta capacità di contrastare povertà ed esclusione sociale. La percentuale di persone a rischio povertà o esclusione sociale è superiore alla media europea (22,8 per cento contro 21,3 per cento) e particolarmente elevata tra donne (24,1 per cento) e giovani tra i 20 e i 29 anni (25 per cento per i ragazzi, 26,1 per cento per le ragazze).

Per invertire questa tendenza, non bastano interventi di breve periodo. Sono necessarie politiche di sviluppo a lungo termine, che puntino su innovazione, capitale umano, servizi avanzati e inclusione sociale. Questo scenario, sul fronte dell’opposizione, offre l’opportunità di superare lo storico divario tra una sinistra riformista, orientata al governo ma disattenta alla lotta alle disuguaglianze, e una sinistra radical-populista, focalizzata sulla redistribuzione ma che trascura il rilancio economico.

L’Italia può diventare un laboratorio ideale per sperimentare una “quadratura del cerchio” dello sviluppo, che combini crescita economica, sostenibilità e coesione sociale. Il nostro modello di capitalismo, basato su piccole e medie imprese integrate nei territori, contrariamente alle aspettative di molti sembra adattarsi bene ai nuovi scenari globali. Per sopravvivere, queste imprese devono fare sistema e cooperare, contando su una politica industriale inclusiva e su beni collettivi per la competitività, come ricerca, formazione e infrastrutture, che solo l’intervento pubblico può garantire.

Questi sistemi produttivi locali offrono un terreno fertile per sperimentare un modello di impresa orientato al “valore condiviso” (shared value), come proposto nel 2011 da Michael Porter e Mark Kramer sulla Harvard Business Review. Questo approccio, in contrasto con il tradizionale “valore per gli azionisti” (shareholder value), mira a rendere le imprese competitive promuovendo al contempo benessere e sostenibilità nelle comunità locali.

Il rilancio della domanda interna richiede anche una modernizzazione dei servizi, investimenti nel capitale umano e una riduzione dell’esclusione sociale, obiettivi che non possono essere raggiunti senza una tassazione progressiva e una redistribuzione della ricchezza.

È un programma ambizioso, ma necessario. Poiché, per contrastare il declino economico e sociale, serve una coalizione politica capace di promuovere un nuovo patto sociale per lo sviluppo.

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