Il mito è una narrazione investita di sacralità, che il tempo ha garantito da discussioni. Vi permettereste mai di mettere questionare l’italianità di un piatto iconico come la pizza o gli spaghetti al pomodoro? Massimo Montanari lo ha fatto nel suo saggio Il mito delle origini e ha dovuto rispondere a più di una critica.

Lo ha fatto anche lo storico della gastronomia Luca Cesari con la pizza, andando a studiare le origini della ricetta e scoprendo che quella che mangiamo oggi è una variante importata dagli Stati Uniti. Ma come nasce un mito a tavola? Come si consolida una certezza granitica da difendere a spada tratta come la sacralità della ricetta della carbonara? E oggi, dove tutto può essere progettato a tavolino, possiamo arrivare a creare nuovi miti destinati all’eternità?

La nascita di un mito gastronomico

Per affermarsi, il mito gastronomico deve avere alcune caratteristiche precise. Come spiega Cesari, «prima di tutto deve essere un piatto semplice, realizzato con materie prime facili da reperire, affinché la ricetta sia replicata costantemente. Basti pensare alla pizza margherita. Negli Stati Uniti il pomodoro in conserva era disponibile tutto l’anno così come i formaggi, che iniziano ad essere prodotti in loco. Al contrario, le pizze napoletane di fine Ottocento, con pesciolini o vongole, scompaiono perché fatte con ingredienti più difficili da trovare. In più, oltreoceano gli immigrati iniziano a cucinare meglio grazie a un altro fattore determinante per il consolidamento di un mito: le loro condizioni economiche migliorano».

Per costruire un mito gastronomico è necessario che sia riconosciuta l’identità di ingredienti e ricette e che queste siano facili da eseguire. «Alcune cucine come quella bolognese sopravvivono solo grazie ai ristoranti. Le lasagne hanno una preparazione complessa, mentre la carbonara, facile da replicare anche a casa, è più famosa dei tortellini. Infatti, non si tratta di un piatto complesso: più o meno tutti possono farla, con esiti variabili, ma commestibili». E se è noto che sulla diatriba guanciale-pancetta o pecorino-parmigiano si spaccano le amicizie più solide, semplificare la ricetta in base a disponibilità di ingredienti e procedimenti più agili è fondamentale per replicarne la preparazione e consegnare il piatto alla dimensione mitologica. È successo con la cotoletta, ad esempio, che dalla sua nascita ha perso tantissimi step di preparazione.

Italiani, bravi narratori

«Apprezzata all’estero perché sposava i gusti anglosassoni con uovo e pancetta, con la carbonara siamo stati bravissimi a cavalcare l’onda e a costruire il mito, utilizzando materie prime di eccellenza assoluta anche a livello industriale. Basti pensare che i puristi della cucina romana degli anni Settanta e Ottanta la vedevano un piatto alieno. Le grandi ricette romane erano fettuccine, cannelloni, sughi di rigaglie, cappelletti, come si può leggere nel Talismano della felicità di Ada Boni (1937)».

Insomma, siamo dei maestri della costruzione di storie gastronomiche, arte oggi nota come storytelling. «Questi miti hanno coagulato sentimenti di appartenenza alle comunità attraverso leggende che agli storici come me, poi, tocca smentire».

Com’è cambiata la costruzione 

Pizza e Carbonara sono miti nati per caso, ma a nessuno era venuto in mente che costruire miti gastronomici potesse essere importante. Basti pensare a Pellegrino Artusi, food blogger ante litteram, che con La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene ha contribuito a fondare il mito della cucina italiana, riunendo tante ricette di cucina borghese e popolare. L’ultima edizione risale al 1910, epoca in cui la cucina italiana era in fase di formazione.

Oggi i miti gastronomici possono nascere tavolino. Secondo Domingo Iudice, founder e chairman di Pescaria, nonché direttore marketing di Brainpull, «un mito gastronomico è un qualsivoglia prodotto che una volta messo sul mercato inizia a incontrare il parere del pubblico. Questo, poi, si dirama fino a raggiungere grandi estensioni geografiche e arriva ad essere globalmente riconosciuto». Insomma, il buon vecchio passaparola, che ha fatto entrare il panino al tonno di Pescaria nella lista di quelli da mangiare una volta nella vita secondo Time Out.

Ma cosa c’è dietro il successo del primo fast food di pesce italiano? Tanto lavoro, standardizzazione delle operazioni, qualità e prodotto, ma anche di attenzione al cliente, che passa per una domanda molto semplice da fargli: “Come va?”. E se, come dimostra il revamp degli spaghetti all’assassina in Puglia, la viralità non è controllabile né è possibile costruirla a tavolino, non si può dire lo stesso di un prodotto stabile e buono.

Il marketer osserva il mercato e intuisce come creare valore, lavorando su storytelling, brand, packaging e altre leve legate al piatto, catalizzando e accelerandone la crescita attraverso tutti gli strumenti disponibili. I social sono centrali nella strategia di rinforzo del passaparola. «Se dopo aver visto un posto su YouTube, Facebook e Instagram ricevo lo stesso consiglio su quel dato locale o piatto da una persona di cui mi fido, unisco tutti questi punti e decido che sì, devo proprio andare a provarli. Il marketing può gettare benzina sul fuoco, ma è ciò che arde sotto le ceneri a contare. Se il prodotto non è solido, non c'è marketing che possa ingannare un cliente».

In questo quadro, il ruolo degli influencer sembra aver perso efficacia. Dopo aver raccontato esperienze di consumo cercando visibilità, l’avvio di un circuito economico ha permesso l’ingresso di molte figure capaci anche di danneggiare le imprese. «Dietro i ristoranti ci sono degli esseri umani, e gli umani sbagliano. Per questo le imprese devono cercare di rendere la fedeltà del cliente misurabile e gestibile».

Per creare un mito gastronomico – o un fenomeno pensato per non svanire come moda passeggera – non è possibile investire una cifra inferiore ai cinquemila euro al mese, soprattutto per un progetto appena nato. «Ma l’obiettivo è trasformare parte dei contatti in clienti fidelizzati, grazie anche all’intelligenza artificiale».

I miti sorgono, i miti cadono

Ma non tutti i miti sono fatti per durare. Tra quelli più famosi, precipitati rovinosamente, c’è la panna da cucina. «Negli anni Settanta identificava una cucina ricca e inseriva il piatto in una discendenza legittima dalla cucina francese, stratagemma utilizzato per nobilitare piatti mediocri», ricorda Cesari.

Oggi è al bando assieme alle pennette alla vodka, piatto creato dallo chef romano Mario Zorzetto a Osaka nel 1970. Ha avuto successo ovunque, ma non ha retto alla prova del tempo in Italia. «Nonostante le penne al pomodoro siano un simbolo di italianità, il fatto di non avere ingredienti tutti italiani – panna, vodka e bacon non lo sono – non ha permesso di costruire una storia credibile in patria, mentre all’estero sì. Perciò queste ricette vengono viste come bestemmie da oltreoceano. Oltre al nome, il mito ha bisogno di narrazione per durare».

Secondo Iudice non è possibile prevedere la durata di un mito gastronomico, specie contemporaneo, ma è importante distinguere tra tre tipi di clamore: il fade, l’hype e il trend.

«Prendiamo il poke, ora in fade: dopo il boom iniziale, ora va scomparendo. L’hype è legato all’esplosione di un trend, come dimostra il ritorno del pollo dopo il caso aviaria. Il trend è un fenomeno naturale, legato a vari fattori, tra cui l’economia, come dimostra l’esplosione dei fast food in America, cresciuta anche grazie al fast food, che permetteva a uomini e donne di poter mangiare con pochi dollari, senza la necessità di dover cucinare in casa. La carbonara resta un inossidabile trend: è ancora uno dei piatti più ordinati di ogni menu che la presenti. Ma al di là di tutto la ricetta più ricercata è quella della pasta al sugo. La pizza più mangiata al mondo? La margherita. Ciò significa che le abitudini di consumo restano, anche se a volte ci piace cambiare e ci “fissiamo” su un nuovo prodotto».

Un’ultima grande verità è che, dal punto di vista globale, il grande mito della cucina italiana – che non esiste se si prendono i singoli, mitici piatti – è più forte che mai. «Se un tedesco viene in Italia», sottolinea Cesari, «si aspetta un certo tipo di cucina perché ne conoscono i tratti identitari». Consumo del cappuccino a parte. E anche questa stravaganza, a ben guardare, è ormai consegnata al regno del mito.

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