Nel giardino esterno, all’ombra di un albero, un gruppetto di signori si infervora parlando della cavalcata del Bologna Calcio verso la Champions League. In un angolo è appena iniziato il pinnacolo e il tifo, austero e concentrato, borbotta a ogni mossa. Fanno già quaranta gradi sotto la tensostruttura che fa da ristorante, la schiena è colla per le sedie di plastica ma, nel menù, tagliatelle, tortelloni e crescentine non mancano. Lo spritz al bar costa ancora tre euro e mezzo, con 25 (vino e acqua inclusi, amari da pagare al momento) esci rotolando. È aria fresca, di questi tempi, il Circolo Ippodromo.

Definire un bar sincero non è un’impresa semplice perché, più che a una categoria commerciale, appartiene all’epica dei sentimenti che rappresentano un quartiere, se in città, o di un paese intero, nei piccoli centri.

Tutto è generalmente come viene presentato e per questo bisogna accettare che non ci saranno piatti segreti a riempire il vuoto che senti, al massimo ci sono noccioline e patatine, e nessuna bottiglia nascosta a salvarti dal vino acido della spina. 

I bar sinceri seguono una serie di caratteristiche estetiche diffuse: l’insegna bianco siberia, il nomen omen (Sport, Stazione, Baby..) o quel senso di disillusione nei suoi abitanti diventati ormai inscindibili dal mobilio. Non si tratta, comunque, di elementi sufficienti a garantirne l’autenticità perché quella proviene dalla sensazione che ti evocano: protezione più che nostalgia, comunità più che anemoia.

«Forse è un po’ scontato dirlo ma il bar sincero è un luogo in cui ti senti a casa. Anche se non ci sei mai entrato prima, senti comunque che c’è qualcosa di conosciuto», racconta il collettivo Posti Sinceri che, dal 2018, raccoglie e documenta le ultime resistenze sincere a Milano.

«Sono tutti posti che hanno un’identità molto forte. Il filo conduttore è che tutti i gestori vivono quei luoghi come i salotti di casa propria. Aldilà dell’essere cliente, ti rendi conto di essere in un posto sincero quando tutti si conoscono, sono amici del barista o del cuoco. Si vive un momento che non è quello del consumo fine a se stesso, una volta finito il bicchiere non è che te ne vai e basta, perché è qualcosa di più sociale. Devi avere una certa attitudine, anche, per comprendere dove ti trovi e che questi posti abbiano un loro equilibrio».

Come le api

Agli inizi degli anni Duemila, comuni e regioni si accorsero che le botteghe storiche stavano scomparendo una dopo l’altra. Proprio come per le api, sentinelle sul campo la cui scomparsa non fa presagire nulla di buono, le istituzioni cominciarono a ricoprirle di attenzioni nel tentativo di preservare i loro ecosistemi.

Lo shopping online sarebbe comunque arrivato ma quella piaga si prese poi i quartieri e, inevitabilmente, anche i suoi bar. In entomologia viene definita come moria degli alveari, la scomparsa delle api, all’interno delle città e delle province può essere chiamata desertificazione perché è un segnale, importante, su quale direzione si sta prendendo.

«Dal 2018, quando abbiamo iniziato la nostra ricerca», prosegue il collettivo Posti Sinceri, «Era chiaro che il fenomeno della scomparsa dei bar di quartiere a Milano fosse già cominciata almeno da Expo 2015. Le chiusure sono fisiologiche, c’è chi è andato in pensione e chi è stato costretto a chiudere perché hanno alzato l’affitto, il problema è che questo continua ad avvenire senza soluzione. Restare aperti, allora, a determinate condizioni di prezzo e di identità, diventa anche un atto politico».

Non è soltanto una sensazione quella che a mezzanotte ti prende in città o sulle strade di provincia quando non sai più dove andare, perché i bar stanno scomparendo e anche a velocità sostenuta, 8mila all’anno secondo le rilevazioni di Fipe-Confcommercio: «In poco più di dieci anni», ha commentato Luciano Sbraga, vicedirettore generale di Fipe, «I bar sono diminuiti dell’11 per cento, passando da 127.495 nel 2012 a 104.721 nel 2023. È un calo rilevante e riguarda, con una media intorno al 17 per cento, sia i centri storici che le province».

Gli ultimi custodi

Nel 2023, sempre secondo FIPE-Confocommercio, sono stati 4mila i bar ad avere inaugurato ma il triplo (12.188) ha chiuso. Il dato più preoccupante, però, riguarda il tempo di vita delle nuove attività. Solo il 52 per cento supera, infatti, lo scoglio dei cinque anni: «Questo vuol dire che di 100 imprese che dovessero nascere oggi, tra cinque anni ne rimarranno in vita soltanto 52», continua Sbraga, «Perché questo avviene? Perché è un’attività molto complicata in un mercato fortemente competitivo. Se pensiamo al numero di bar che esistono è chiaro che bisogna trovare la formula giusta, bisogna capire che cosa c’è intorno, che cosa vogliono i clienti perché oggi quello più fortemente in crisi è, infatti, il bar generalista».

Generalista, per un bar sincero, può significare tante cose ma rappresenta bene la sua capacità di fare un po’ tutto senza eccellere in niente. È la condanna, o la salvezza, di questi posti che sembravano destinati a resistere, immutabili, per sempre, nello stesso luogo con i soliti tramezzini appiccicosi, le paste che sanno un po’ di cartone, le birre leggermente calde perché nessuno le ha sostituite in tempo. Fatti che avvengono non tanto per mancanza di mestiere ma per fondare questo tipo di poetica leggera e popolare.

Cadono uno dopo l’altro, questi custodi dei quartieri, e ricambi non sembrano arrivarne. Chiudono e scompaiono in maniera silenziosa, lasciando i loro clienti a vagare con il lutto in volto di chi non trova più una casa. A perdersi, quando un bar sincero chiude, sembra essere soprattutto quel gusto lento che si oppone alla velocità delle città o alla noia della provincia. Quell’idea di nessuna pretesa e nessun compromesso. La scomparsa di un simbolo avrà anche altre icone, altri concept e interior designer in grado di rappresentare questo tempo ma il tutto probabilmente, con buona pace, della sincerità.

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