Approvata in via definitiva, la riforma dell’autonomia differenziata è legge. Dopo una maratona notturna, la Lega ha portato a casa la riforma identitaria che aspettava da trent’anni, superando sia le contrarietà di Forza Italia che la freddezza di Giorgia Meloni, che ora pretenderà reciprocità sul premierato.

Le opposizioni, invece, sono insorte: in aula hanno sventolato la Costituzione e sottolineato le divisioni dentro la maggioranza. «Brandiscono lo scalpo del Sud prima dei ballottaggi», ha scritto Elly Schlein e Giuseppe Conte ha parlato di una frattura dell’Italia «col favore delle tenebre», poi tutti i partiti di opposizione hanno annunciato di essere pronti alla raccolta delle firme per un referendum abrogativo in un ritrovato spazio di unità. Anche il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei che già in passato aveva aspramente criticato la riforma e si era detto preoccupato per gli effetti dell’autonomia, ha ribadito la sua distanza dal governo: «Si vede che non ci hanno preso sul serio, che dobbiamo fare?».

E la riforma ribattezzata “spacca-Italia” dalle opposizioni ha già provocato la prima rottura. Non già tra Nord e Sud (i Lep non sono ancora approvati e le richieste di autonomia avranno bisogno di intese stato-regioni), ma dentro Forza Italia.

Il partito di Antonio Tajani, che ha una parte importante della sua base elettorale al Sud e governa buona parte delle regioni meridionali, aveva sin da subito mostrato forti perplessità rispetto al ddl Calderoli. Se pubblicamente gli azzurri hanno sempre dovuto fare buon viso a cattivo gioco, in privato buona parte di loro aveva manifestato perplessità molto simili a quelle dell’opposizione.

Alla prova del nove del voto finale, però, il dissenso si è ridotto a quattro ordini del giorno che impegnano il governo a ponderare con attenzione le risorse economiche da destinare. «Poco più che carta straccia», è stato il commento tranciante di un influente deputato.

La spaccatura si è comunque consumata: circa la metà del gruppo di FI alla Camera, che conta 45 eletti, non ha partecipato all’approvazione finale del ddl con 14 assenti, 7 in missione e tre in aperto dissenso. La crepa ha subito mostrato la sua origine: la Calabria del presidente azzurro Roberto Occhiuto, il quale, nel corso dei mesi, ha più volte pubblicamente espresso il suo dissenso sul testo. Così i tre deputati calabresi hanno scelto di non votare, rivendicandolo.

«Abbiamo ritenuto insufficienti le garanzie soprattutto in merito alle materie non misurabili con i Lep» e «non abbiamo votato la legge per una decisione personale, esercitando la libertà di coscienza che c’è sempre stata in Forza Italia». Immediata la reazione leghista. «Forza Italia sia coerente e la smetta di fare propaganda differenziata, di fatto prendendo in giro i cittadini» ha detto il coordinatore lombardo e deputato Fabrizio Cecchetti.

Fonti interne, del resto, hanno confermato il disagio sempre più profondo dei parlamentari del sud nei confronti di Tajani, accusato di essere troppo accomodante con le istanze leghiste pur di compiacere la premier Giorgia Meloni.

La fronda calabrese

Eppure il segretario aveva già avuto ampie avvisaglie nell’ultima direzione. Chi era presente racconta di due posizioni del fronte meridionale sull’autonomia. Una apertamente ostile guidata dal calabrese Occhiuto, che è anche uno dei quattro vicesegretari del partito e certamente il più autonomo rispetto a Tajani, perché in grado di contare su un consenso personale consolidato.

L’altra posizione, invece, è più sottotraccia: il campano Fulvio Martuscello in privato aveva manifestato la sua perplessità sull’autonomia, facendo presente che votarla senza correttivi avrebbe significato un’emorragia di voti al sud, poi però non aveva tradotto in pratica il suo dissenso, anche in vista delle elezioni europee. Alla fine Tajani, «che è è in grado di digerire qualsiasi riforma, anche in questo caso ha scelto di coprire tutto», viene spiegato.

La rottura nel gruppo, pur negata dai deputati e dallo stesso Occhiuto, porta un rischio ulteriore: la riforma dell’autonomia potrebbe essere oggetto di referendum nel caso in cui lo propongano cinque consigli regionali. Il centrosinistra governa esattamente cinque regioni, ma l’Emilia-Romagna è cautamente favorevole all’autonomia.

Il quinto pilastro, allora, potrebbe diventare la Calabria. «Occhiuto potrebbe aggregarsi, certamente non ha paura», spiega un deputato che conosce l’irritazione del governatore calabrese. Del resto, le sue parole post voto sono state eloquenti: «Credo che l’approvazione della riforma, con questa modalità, non sia un bell’affare per il centrodestra» ma somiglia più «a una bandierina da dare a una forza politica che, piuttosto, a una riforma capace di superare anche il divario fra le regioni del Sud e quelle del Nord».

Su questa linea è anche il presidente azzurro della Basilicata, Vito Bardi, che ha parlato di una riforma che dovrà avere «come fattore di riequilibrio un intervento sulla riduzione dei divari infrastrutturali». Più mite, invece, è stato il presidente siciliano Renato Schifani, che ha chiesto una attuazione che «dovrà comunque garantire l’eguaglianza sostanziale».

Ormai però l’autonomia è legge e Tajani, a cui tutti pure riconoscono la capacità di aver portato il partito al 10 per cento, dovrà ottenere per i big del Sud qualche risultato concreto per compensare il boccone amaro.

© Riproduzione riservata