Alla fine, tutto è andato secondo copione: il Senato ha approvato la riforma costituzionale del premierato con 109 favorevoli, 77 contrari e un astenuto e i numeri danno la sostanziale certezza che, al termine del lungo iter parlamentare, il referendum sarà inevitabile.

La prima a gioire del risultato è stata la premier Giorgia Meloni, che pure in campagna elettorale aveva ridimensionato la portata della riforma. «Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati», è stata la sua presa di posizione.

A concludere la giornata, Fratelli d’Italia ha fatto il verso alle opposizioni – scese in piazza Santi Apostoli contro le riforme – improvvisando un flash mob accanto al Senato, in cui hanno esposto uno striscione in cui si leggeva: «Fine dei giochi di palazzo. Con questa riforma decideranno gli italiani».

In realtà, l’ipotetica fine dei presunti giochi di palazzo arriverà solo dopo il via libera anche della Camera e poi la seconda lettura in entrambi i rami del parlamento e già questa prima approvazione rischia di essere velleitaria, finendo risucchiata nei dissidi della maggioranza. Proprio nel giorno del via libera la Lega ha mandato un proverbiale avviso ai naviganti.

«Miglioramenti sono possibili» per «togliere qualche freccia dall’arco delle opposizioni in vista del referendum», ha detto il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, anche se «molto dipenderà dalla disponibilità di Fratelli d’Italia». Dal canto suo, la Lega «rispetterà l’accordo politico», è stata la conclusione, lasciando sottinteso l’ormai conclamato accordo del sì al premierato in cambio di quello sull’autonomia differenziata, ma anche lasciando capire che il partito di Matteo Salvini non abbasserà la guardia ora che è arrivato il suo momento di incassare.

L’autonomia

Anche perché, per il gioco dei veti incrociati, il testo del ddl Calderoli non può ancora considerarsi sicuro del via libera definitivo e ad assediarlo in questo caso è Forza Italia.

Il partito di Antonio Tajani non ha mai nascosto le sue perplessità su un disegno di legge ordinario che mette a rischio l’unità del paese e penalizza – con preoccupazione manifestata anche dai governatori del sud di centrodestra – in particolare il Meridione. Inizialmente era trapelata la volontà di presentare un emendamento, poi ha prevalso il pragmatismo: modificare ora il testo avrebbe significato rispedirlo in nuova lettura al Senato e lo sgarbo sarebbe stato imperdonabile.

Così FI si è ridimensionata, proponendo quattro ordini del giorno che impegnano il governo nell’attuazione della riforma a «valutare l’opportunità di prevedere la predisposizione di un’analisi di impatto» prima di stipulare le intese anche nelle materie escluse dai Lep.

Inoltre, «è opportuno vigilare con estrema attenzione affinché i diritti sociali e civili siano garantiti a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale» e «di applicare in maniera rigorosa la tutela dell’unità giuridica o economica dello stato», quindi che si possa «limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti individuati dalla regione nell’atto di iniziativa».

Infine, FI ha chiesto di prevedere che tutti gli schemi di decreti siano «corredati da una relazione tecnica, per consentire la verifica anche in sede parlamentare tanto delle implicazioni finanziarie del trasferimento, quanto del rispetto dei criteri previsti dalle intese» e di non avviare negoziati «fino alla definizione dei relativi Lep».

I quattro odg saranno votati mercoledì 19 e portano le firme del capogruppo Paolo Barelli, del suo vice Raffaele Nevi, del presidente della commissione Affari Costituzionali, Nazario Pagano, e di uno dei relatori del testo, Paolo Emilio Russo. Il tentativo è quello di dare ogni crisma di formalità alla richiesta, pur sapendo bene che gli odg rimangono un’arma spuntata e che il loro contenuto spesso è un puro auspicio, se non lettera morta.

Di più evidentemente era impossibile fare, anche perchè FI è a sua volta tenuta sotto scacco dalla Lega sul redditometro. Tajani ha chiesto di eliminarlo, ma il sottosegretario all’Economia leghista, Federico Freni, ha glissato, parlando di «istanze di FI valorizzate», ipotizzandone l’abolizione in un altro provvedimento «molto vicino» ma non ancora definito. Eppure, le fibrillazioni d’aula sono arrivate fino in Veneto, dove il presidente Luca Zaia ha messo le mani avanti. «L’autonomia è un pilastro del programma di governo, così come il premierato. Che salti il banco nemmeno voglio pensarlo», ha detto al Corriere della Sera.

Al netto degli slogan politici, tuttavia, anche la Lega sa bene che la riforma parte zoppa, se manca l’indicazione delle risorse. «Le risorse devono essere definite nelle varie intese e poi finanziate al livello delle varie leggi di bilancio», ha detto il ministro per gli Affari Regionali, Roberto Calderoli, ammettendo che la cifra necessaria per le materie Lep è impossibile da stabilire, «prima di tutto bisogna sapere quali sono quei diritti civili e sociali che noi dobbiamo garantire e dopo potremo sapere le risorse di cui avremo la necessità». In altre parole, in questo momento nemmeno una stima esiste. «Io mi accontenterei di stanziare anno per anno risorse per alcuni di questi Lep», ha concluso.

Dopo la fine della tornata europea, dunque, in maggioranza la tensione continua a essere strisciante, in un conflitto a bassa intensità che vede tutti e tre i partiti con la mano sul grilletto a difesa delle proprie posizioni. Soprattutto la Lega, che dal voto è uscita come forza fanalino di coda e dovrà vincere la competizione di FI, che si considera ormai l’interlocutore privilegiato e soprattutto essenziale di Meloni sia in ottica europea sia nell’approvazione delle riforme.

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