La stretta delle maglie della censura in Rai, le acquisizioni di testate giornalistiche da parte di politici di destra, non ultima la trattativa per l’Agi, e la serie di iniziative parlamentari con le leggi che vogliono restringere il campo della libertà di informazione. A chiusura del cerchio la convocazione di un direttore, Emiliano Fittipaldi di Domani, in commissione Antimafia per rendere conto delle inchieste pubblicate da questo quotidiano.

Di fronte a una situazione del genere «serve una mobilitazione generale, bisogna andare oltre i confini delle singole realtà editoriali», dice senza mezzi termini Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). «Qui non è solo un problema di Domani, così come l’attacco all’Agi non è solo circoscritto l’Agi», ragiona Di Trapani, «perché la questione riguarda tutti, la libertà di espressione nel suo insieme. Per questo il mio auspicio è di un impegno che non guardi solo alla specifica testata».

Intimidazione a Domani

Insomma, altro che Meloni paladina della libertà di espressione, contraria alla censura, come ha scritto nel post in cui ha pubblicato il discorso di Antonio Scurati sul 25 aprile censurato dalla Rai. L’ultima goccia è stata proprio l’audizione del direttore di Domani chiesta in commissione Antimafia. Fittipaldi viene chiamato in causa dal potere politico, nell’ambito dell’inchiesta sull’accesso alle banche dati del finanziere Pasquale Striano, in cui sono indagati tre giornalisti di inchiesta di questo quotidiano.

«C’è un chiaro intento intimidatorio dietro questo atto. Non c’è altra spiegazione. Cosa si può chiedere a un giornalista? La rivelazione delle fonti? Come è stato scritto l’articolo? Assurdo. Per questo vedo solo il potere politico che reagisce ad articoli sgraditi. E cerca di intimidire. Un fatto gravissimo», insiste il presidente del sindacato dei giornalisti italiani.

Nella pur lunga casistica di atti ostili alla stampa, la vicenda di Domani rischia di essere un unicum. O, peggio, di diventare il paradigma di una nuova consuetudine di mostrare chi detiene la forza. «Non ricordo un solo caso di convocazione di un giornalista o di un direttore di giornale, in una commissione, come quella Antimafia, per rendere conto di articoli o inchieste pubblicate», racconta il segretario della Fnsi. «In passato – ricorda – quella commissione ha certo convocato i giornalisti. Ma per una funzione totalmente opposta. Voleva dimostrare che lo stato era dalla parte dei giornalisti di inchiesta, non mettere sotto inchiesta i giornalisti».

La vicenda raccontata è quella del comitato dei cronisti minacciati, che aveva trovato appunto udienza in commissione Antimafia. «Invece di convocare i giornalisti per articoli sgraditi, bisognerebbe riprendere quel percorso interrotto».

Il progetto-bavaglio del governo è esplicitato da un altro passaggio in parlamento: il disegno di legge sulla cybersecurity diventa lo strumento per imbavagliare ancora di più la stampa. Se il giornalista pubblica una notizia che è «frutto di reato», può finire direttamente in carcere. La sponda della maggioranza è Enrico Costa, deputato di Azione, ormai sempre più allineato a destra sui temi della giustizia, che ipotizza addirittura una pena fino a 3 anni.

«I giornalisti sono sempre più sotto minaccia e infatti continuano le querele bavaglio, anche da parte di esponenti del governo. Si vede una generale insofferenza verso la libertà di informazione», evidenzia Di Trapani. Esemplare il caso dell’emendamento-Berrino (senatore di Fratelli d’Italia) al ddl diffamazione, che voleva inasprire il carcere per i giornalisti.

Modello Orbán

Il “filo nero” della censura continua, dunque, dopo lo stop al monologo di Scurati nel programma “Chesarà” di Serena Bortone su Rai 3. Le tensioni sono continuate, nonostante il goffo tentativo di ridimensionare la vicenda. Sulla Stampa, l’amministratore delegato di viale Mazzini, Roberto Sergio, è stato categorico: «Non può finire qui, saranno presi provvedimenti drastici». Un modo per lasciar intendere che non era stato avvisato. E lui cosa avrebbe fatto? «Nessuna censura, avrei chiesto di riequilibrare», dice Sergio.

Solo dilettanti allo sbaraglio, quindi? Di Trapani è scettico: «Non capisco lo stupore rispetto a quello che sta succedendo. Questo è il risultato della selezione dei vertici aziendali. Cosa ci si aspetta quando viene indicatore come direttore generale, Giampaolo Rossi che, in un’intervista a un sito vicino a CasaPound, ha definito l’antifascismo “una caricatura”». C’è poi una consonanza di vedute con il sindacato interno, l’Usigrai, che ha scritto all’ad di Viale Mazzini: «Il controllo dei vertici della Rai sull’informazione del servizio pubblico si fa ogni giorno più asfissiante». L’azienda ha replicato con una nota pro-forma: «Nessuna censura».

In effetti, quando i messaggi piacciono alla destra governativa, tutto viene concesso. «Stiamo scambiando un delitto per un diritto. Qua si ha paura di dire, perché anche la politica ha paura a dirlo, che l’aborto è un omicidio», ha detto la vicedirettrice del Tg1, Incoronata Boccia, ospite proprio a Chesarà di Bortone. Parole che arrivano a traino dell’affondo in parlamento sulla legge 194 con l’apertura dei consultori alle associazioni anti-abortiste più intransigenti. «Può ancora ricoprire il ruolo di vicedirettrice del principale tg del paese chi offende le donne e le leggi?», si chiede la capogruppo del Pd alla Camera, Chiara Braga.

Un quadro desolante. Dal segretario della Fnsi arriva un promemoria: «In Gazzetta è stato pubblicato il Media freedom act, che è lo strumento europeo per aumentare tutelare i giornalisti. Ma l’Italia sta andando in direzione opposta. Invece di andare verso Bruxelles, va verso la Budapest di Orbán».

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