Il nuovo mondo che si squaderna ogni giorno davanti ai nostri occhi è caotico e frammentato. In tale contesto instabile e mutevole la vera costante è la sfida tra Stati Uniti e Cina. Pechino vorrebbe issarsi a condomino del pianeta mediante un patto strategico con gli americani, ma Washington non ha intenzione di ripetere l’esperienza fatta con l’Unione sovietica e fa orecchi da mercante.

Di conseguenza la relazione tra i due colossi si è trasformata in un’aspra disputa per l’egemonia. Gli Usa restano avvantaggiati, ma la Cina ha dalla sua le simpatie della “maggioranza mondiale”, la nuova definizione di sud globale, termine che suonava troppo occidentale. Il prodotto di tale contesa a due è la deglobalizzazione commerciale e produttiva (in cui ciascuna superpotenza si concentra su amici e alleati), anche se non ancora finanziaria (per creare un sistema monetario parallelo ci vuole tempo).

La geopolitica prende il sopravvento sulle ragioni puramente economiche, e ciò avversa la parte povera del pianeta che puntava sulla crescita costante.

Dal 2000 a oggi ogni crisi geopolitica ha provocato ripercussioni gravi sui paesi fragili, con l’aumento dei costi energetici o dell’inflazione. Oggi per i paesi meno sviluppati è più difficile trovare fornitori o sbocchi di mercato. Dal canto suo l’Occidente è ancora coeso ma sempre più contestato: la guerra in Ucraina e la crisi a Gaza hanno svelato che le regole stabilite dopo la seconda guerra mondiale non hanno carattere universale e vengono definite come «codice dell’occidente, fatto dall’occidente, per l’occidente», secondo le parole dell’esperto sino-australiano Bobo Lo.

Il guaio è che, mentre difende il diritto internazionale e quello umanitario in Ucraina, l’occidente se ne dimentica a Gaza, o almeno ciò è quanto percepisce la maggioranza mondiale. Non che vi siano altri paesi o altre civiltà senza macchia o senza doppiopesismi, ma il tema è che nel caos generale nessuno sembra detenere il diritto di definirsi dalla ”parte giusta” della storia. Il doppio standard in politica estera non viene più accettato: secondo Carlos Ominami, ex senatore ed ex ministro dell’Economia del Cile, ciò «ha fatto perdere ogni autorevolezza morale e politica alle potenze occidentali, a iniziare dagli Stati Uniti».

Tuttavia, il sud globale non ha nulla con cui sostituire l’ordine internazionale del post Seconda guerra mondiale e post Guerra fredda. La maggioranza mondiale non è un’alleanza né rappresenta un’unità politico-economica. Anche quando si parla di Brics e del loro Pil che aumenta, si dimentica di dire che è costituito essenzialmente dalla ricchezza scambiata con il G7, e non autoprodotta in maniera indipendente. Il mondo è dunque in una terra di mezzo: non siamo più sul terreno conosciuto del post 1945 o post 1989, ma nemmeno siamo già arrivati da un’altra parte.

Il sud globale è ancora in costruzione e le sue caratteristiche future dipendono molto dalle relazioni che saranno intessute. C’è molta differenza tra il sistema cinese, quello russo, il modello asiatico vietnamita o indonesiano, i populismi latinoamericani o l’autoritarismo africano.

Alzare la testa

La relazione Pechino-Mosca oggi sembra forte, ma non è detto che sia duratura: ai russi non piace dipendere dai cinesi, come da nessuno, mentre per i cinesi lo strappo delle regole di sovranità sulla Crimea potrebbe diventare controproducente su Taiwan. Le nuove adesioni agli stessi Brics non sono tutte del medesimo segno: Arabia Saudita e Iran rimangono avversari, se non nemici, e tra Egitto ed Etiopia esiste divergenza di interessi.

Ciò di cui l’occidente deve rendersi conto è tuttavia che il resto del mondo possiede ormai i mezzi economici, tecnologici, commerciali e finanziari per opporsi alle decisioni del G7, degli Usa, dell’Europa e delle organizzazioni finanziarie internazionali tradizionalmente dirette dagli occidentali, come il Fondo monetario internazionale (alla testa del quale c’è solitamente un europeo) o la Banca mondiale (usualmente diretta da un americano). La conseguenza di tutto questo è una sola: il mondo non può essere gestito né governato allo stesso modo di vent’anni fa. Oltre i Brics, un certo numero di potenze medie sono ormai in campo (Turchia, Arabia Saudita ecc.) e tra le grandi economie globali ci saranno presto, oltre all’India, anche l’Indonesia, il Messico e così via.

Se tali nuovi attori della politica internazionale non sono ancora in grado di creare un modello unitario alternativo a quello attuale ormai decaduto, hanno però un’opinione comune su un punto: non lasciare più all’occidente la possibilità di decidere per tutti e di imporre la propria volontà.

La denuncia davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja da parte del Sudafrica contro le azioni di guerra di Israele è un segnale in tal senso: se la leadership occidentale è propensa a giustificarle, sia a causa delle shoà che del terrorismo di Hamas, il resto del mondo ha tutt’altra sensibilità. Un nuovo principio sta emergendo nei fori internazionali, a cui l’occidente dovrebbe prestare grande attenzione: quello di “non allineamento attivo”, come lo chiama lo stesso Ominani. Se si rifà al non allineamento storico di Nehru, Sukarno e Tito, esso non si considera tuttavia “neutrale” come all’epoca bipolare, non predica l’equidistanza né si vuole far strumentalizzare da potenze oggettivamente alternative all’occidente.

Secondo i suoi promotori, il non allineamento del XXI secolo vuole superare la vecchia politica vittimistica che ha caratterizzato il sud del mondo con continue richieste di aiuti e cooperazione rivolte al nord, per proporre una nuova architettura globale che tenga conto dell’equità e delle diseguaglianze allo stesso tempo. In altre parole vuole uscire dai vecchi schemi filoccidentali senza diventare antioccidentale. Non tutte le medie potenze sono allineate con Cina o Russia, come spesso si pensa: soltanto un atteggiamento respingente e sordo da parte occidentale potrebbe spingerle in tale direzione.

Purtroppo la guerra in Ucraina ha creato una sindrome da accerchiamento anche in occidente (caduto nella trappola russa che lo sta inghiottendo nelle sue logiche). Anche la contesa americana con la Cina non aiuta a guardare al mondo futuro con occhi nuovi.

L’Europa dovrebbe invece avere una posizione autonoma per dialogare con le altre potenze medie emergenti, senza pregiudizi né contrapposizioni, offrendo una partecipazione leale nella costruzione del nuovo ordine di domani.

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