Ignazio Florio trasformò l’affannosa produzione artigianale dei vini di Marsala in un grande fatto industriale, fece costruire uno stabilimento che ancora oggi corre per un chilometro lungo il mare, disegnò e fece realizzare macchine che già introducevano i primi principi dell’automazione, eresse una teleferica che, per la lunghezza di ottocento metri, trasportava incessantemente le casse colme di bottiglie ed i barili, dalle cantine del suo stabilimento fino alle stive delle navi...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania
Gli spaghetti con il pomodoro a pezzi e le vongole rosse e gialle come nespole, un pesce cotto lentamente sulla carbonella, un’insalata di pomodori e cetriolo. E vino, rosso e aspro, che indugia sulla lingua come un’ortica e riempie di sapore tutti gli angoli della bocca; anche l’aria che esce dal naso ha quell’odore.
Oppure vino giallo, amabile, dolce, tenero, amichevole, si adatta a tutti i sapori, liquefà delicatamente gli spaghetti, accompagna l’insalata risuscitando qua e là il sentore dell’origano. Dinnanzi alla tavola un mare immobile, quasi verde; alle spalle una distesa di stabilimenti bianchi e deserti, con altissime ciminiere; a destra un parco di grandi alberi immoti. Non si sente un alito di vento, non si vede una montagna, una nuvola. Le sole sagome della campagna, le sole cose vive, sono alcuni mulini a vento con le grandi pale che tremano impercettibilmente. Così Marsala una domenica a mezzogiorno.
Ci pareva di essere in un’altra parte dell’Europa, un paese civile, bianco, confortevole, vorace, dove si poteva indugiare al piacere del cibo, dei riposi sonnolenti; la vecchia Sicilia dentro la quale eravamo stati fino a mezz’ora prima era scomparsa alle nostre spalle. Eravamo scesi dalle colline di Castelvetrano per una strada lunghissima e diritta, così bianca e balenante che dall’alto sembrava un canale, un ruscello. Poi, alla curva, la vecchia Sicilia era finita di colpo, la Sicilia con le montagne deserte, i piccoli paesi estatici e feroci, le mosche, gli asini, i manovali con i fazzoletti bianchi legati alla nuca, i cani che inseguivano latrando l’automobile, la gente immobile in mezzo alla via, il mare fantastico, azzurro, profondissimo ai piedi di burroni e spiagge, e i cimiteri come castelli di Alì Babà. Una curva e fu come se il panorama si fosse ribaltato. Dinnanzi e in ogni direzione non c’era che pianura verde, strade dritte, mare verde e immobile, vigneti, giardini, boschi, saline accecanti. Sembrava l’Olanda. Questi cento chilometri di costa che corrono da Mazara del Vallo a Marsala, Trapani, Castellammare del Golfo non rassomigliano ad alcun’altra regione del Sud.
La terra qui è piatta, senza un’altura o un dosso, ed è profonda, di un umore dolce e generoso; le attività dell’uomo sono distribuite con un incredibile equilibrio secondo le possibilità stesse della natura. Qui c’è la più imponente concentrazione di stabilimenti vinicoli di tutta Italia, si aprono i porti pescherecci più popolosi di tutto il Mediterraneo centrale, ed esistono infine le cave di marmo e le saline più vaste di tutta l’isola. La produzione del vino, del pesce, del sale e della pietra è organizzata con un ordine così semplice che probabilmente questa deve essere considerata la contrada siciliana più evoluta nella sua struttura sociale. La città che produce meno è proprio il capoluogo, Trapani, che in compenso fabbrica soldi con le sue sette banche locali. Da tutta la provincia vengono ad immagazzinare denaro nei suoi forzieri ed essa lo tesaurizza, lo presta, racimola interessi da ogni parte, lo moltiplica, lo concede per una nuova iniziativa, una salma, uno stabilimento di pesce, la trasformazione di un vigneto, la costruzione di un peschereccio e molto spesso un nuovo palazzo. Trapani è la città dove l’espansione edilizia, la voracità dei costruttori, la corsa alla speculazione urbanistica hanno assunto un tono quasi brutale.
Adagiata fra il mare e monte Erice, l’unico picco che si elevi nella pianura, proprio nel centro di questa sua provincia laboriosa, umile e affezionata, che non le chiede quasi nulla e le regala quasi tutto, la città di Trapani sembra davvero una piccola, languida capitale che sorvegli il suo feudo, ed ogni sera faccia la conta dei soldi e se ne faccia un cuscino per la notte. Ha un bel lungomare di pietra gialla, le navi candide dei turisti che rollano nel porto, il night club sulla montagna di Erice, i grandi palazzi di governo, una piazza che la sera si ingombra di tavoli, di ombrelloni, di gente che piglia il gelato, di soldati in libera uscita.
Laggiù oltre le brume dell’orizzonte, ad appena venti chilometri, si intravedono le montagne della Sicilia drammatica, e di là sono paesi spopolati dall’emigrazione, dighe che si debbono completare, le vallate aride, gli uomini morti in mezzo alla strada per una scarica di lupara alle spalle, l’antica mischia. Ma oltre le montagne. Qui siamo nel fondo dell’Europa, ma in un paese che la pianura ha sottratto al destino comune del Sud, una sorta di califfato lontano e autonomo. Il buon vino li ha isolati dal resto del dramma. I califfi del vino. Sono una cinquantina e vivono a Marsala, guidano auto di grossa cilindrata, parlano perfettamente inglese e tedesco, hanno motoscafi e ville, viaggiano in aereo per tutto il continente, contrattano a Vienna, a Londra, ad Amsterdam, a New York, si ammirano l’un l’altro e si fanno una concorrenza febbrile, acquistano macchine sempre più moderne, ampliano gli stabilimenti, comperano un motoscafo più elegante, mettono soldi nelle banche di Trapani o se ne fanno incessantemente prestare, producono 500 milioni di litri di vino, cioè una quantità sufficiente per ubriacare contemporaneamente tutta la popolazione adulta dell’Europa e delle due Americhe. Un vino che frutta, ogni anno, a tutta l’economia del territorio, cinquanta miliardi di ottime lire: un vino che li vale, soporoso, dolcissimo, con un sentore di profondità umide, di resine, un sapore che si adagia e si allarga in tutto il palato, che accende subito l’occhio.
Quando Garibaldi sbarcò su questa costa con le sue mille camicie rosse, gliene offrirono un buon litro e narrano le storie patrie ch’egli lo assaporasse con soddisfatta lentezza. Le sue schiere combattevano già verso le montagne, ma Garibaldi era un vecchio marinaio, aveva fatto il mandriano e il pecoraio, mangiava ogni giorno pane e cipolla cruda, era un uomo affascinante ma di alito grezzo il quale accanto alla sciabola, sulla sella, recava sempre una borraccia da un litro. Non ne aveva mai bevuto di così dolce e liquoroso, ed i patrioti riconoscenti lo battezzarono con il suo nome. Dopo cento anni di unità nazionale lo potete trovare ancora con l’etichetta dell’eroe e tredici gradi di alcoolismo. Piacque anche a Nelson.
Tanto anzi gli piacque che, avendolo gustato già una volta, alla vigilia della battaglia di Trafalgar, gettò le ancore nella rada di Marsala e ne acquistò duemila botti che fece distribuire agli equipaggi della sua flotta affinché ne bevessero nell’imminenza della lotta e affrontassero più spavaldamente Napoleone. Tutta la storia del vino di Marsala, di questo straordinario fenomeno industriale che rende all’economia siciliana molto più delle miniere di zolfo, o del petrolio, è bizzarra. Comincia in modo quasi grottesco. Due mercanti inglesi, anzi due venditori ambulanti di stoffe, approdarono a Marsala vent’anni prima della rivoluzione francese.
Correva l’anno 1773 e i due inglesi si chiamavano Whitaker e Whoddouse. Come tutti i britannici erano formidabili bevitori, giravano le contrade del mondo, vendevano sete dell’Oriente, drappi scozzesi, tessuti di lana irlandese o tedesca e la sera andavano a fare i conti nella bettola più vicina. Finivano regolarmente sotto un tavolo. L’incontro con il vinello bianco di Marsala fu un incantesimo, vi scoprirono dentro lo stesso aroma violento dei vini spagnoli e portoghesi, qualcosa che ricordava il vecchio Porto che l’Inghilterra si faceva venire a bastimenti da Lisbona, ma anche un gusto più sottile, uno zucchero filtrato dalle profondità della terra. Ne fecero una sbornia storica (una data infatti che rappresenta una svolta per l’economia di una intera popolazione) e decisero di rimanere a Marsala.
Vendettero a buon prezzo e in fretta tutta la merce che avevano e cominciarono ad acquistare terra e vigneti, si fecero prestare soldi, se ne fecero anticipare dagli usurai della madre patria, e misero su una distilleria. Alla fine del primo anno spedirono in Inghilterra il primo vascello carico di vino Marsala. I salotti di Londra lo asciugarono in una settimana e ne chiesero dell’altro: fu giudicato impareggiabile per rendere più brillante le conversazioni di Corte, infondere coraggio ai gentiluomini prima di un duello, per consolare i dispiaceri d’amore e soprattutto per berne una bottiglia in solitudine. Whitaker e Whoddouse comperarono altri vigneti, si fecero prestare altri soldi dai banchieri, ingrandirono la distilleria, fecero costruire alcune immense botti di rovere per invecchiare il prodotto e acquistarono un vascello per trasportare più celermente i carichi fino ai porti di destinazione.
Non c’era uva che bastasse per tener testa alle richieste; l’estensione dei vigneti si moltiplicò, la pianura che per centinaia di anni era stata solo un’immensa piantagione di cereali, cominciò febbrilmente a coprirsi di tralicci e di viti; un contagio, una macchia verde che si allargava di anno in anno per chilometri, per decine di chilometri, lungo tutta la costa di Mazara del Vallo fino a Trapani. Nel giro di cinquant’anni il Marsala divenne il vino più famoso del mondo, piccole distillerie cominciarono a pullulare lungo la riviera, stabilimenti rudimentali che lavoravano con metodi artigianali, infaticabilmente. Se i due venditori ambulanti inglesi erano stati gli scopritori del vino di Marsala, l’autentico pioniere fu però il palermitano Ignazio Florio: era costui uno dei gentiluomini più ricchi d’Italia, forse addirittura il più ricco dell’epoca, proprietario di immensi feudi, industriale audace, mercante di infallibile intuito, uno di quegli uomini che nei momenti storici di transizione, rappresentano il punto di sutura esatto fra il vecchio e il nuovo.
Era un uomo regale come le tradizioni dell’antica nobiltà terriera pretendevano, ed era anche temerario e avido, come invece voleva la nuova struttura sociale nella quale la macchina iniziava il suo dominio. Ignazio Florio aveva fondato la società di navigazione Florio e Rubattino che aveva il monopolio del trasferimento degli emigranti dal Mediterraneo alle Americhe, e negli stessi anni aveva fatto costruire quella mirabile villa Igea dove egli poteva ospitare, con un cerimoniale da nababbo, tutte le famiglie sovrane che arrivavano a Palermo. Ignazio Florio trasformò l’affannosa produzione artigianale dei vini di Marsala in un grande fatto industriale, fece costruire uno stabilimento che ancora oggi corre per un chilometro lungo il mare, disegnò e fece realizzare macchine che già introducevano i primi principi dell’automazione, eresse una teleferica che, per la lunghezza di ottocento metri, trasportava incessantemente le casse colme di bottiglie ed i barili, dalle cantine del suo stabilimento fino alle stive delle navi.
Accanto al suo si disegnarono presto altri stabilimenti altrettanto imponenti e moderni, tutta la pianura nel frattempo era diventata una sconfinata distesa di vigneti per una profondità di circa venti chilometri ed una lunghezza di settanta. Molte distillerie erano di proprietà inglese, erano centinaia gli inglesi, i tecnici, gli operai, i marinai, i degustatori che si erano trasferiti quaggiù e formavano ormai una autentica colonia.
Il clima era mitissimo, la bonomia della popolazione rassicurante, il vino formidabile, si lavorava, si facevano bagni, ci si ubriacava con piacevole puntualità quotidiana. Impararono a parlare in dialetto, si costruirono una chiesa protestante e persino un vecchio cimitero, che ora non esiste più poiché c’è un bel vigneto, ma le loro vecchie ossa intrise di Marsala hanno contribuito a fertilizzare la terra. Poi vennero gli anni delle guerre, gli inglesi se ne andarono, arrivò la moda del Vermouth, che non è un vino tipico, ma una miscela, una composizione, una vanità nuova nel mondo dei sapori alcoolici; si prende col ghiaccio, con il seltz, in piscina, è coetaneo dei safari di Hemingway, dello scooter, delle divisioni corazzate, dei film a colori, si beve di colpo, è vagamente arido, razionale, violento, come il Marsala era invece misterioso, delicato, affabile, e si sorseggiava adagio, in modo da penetrarne l’aroma e capirlo interamente, sentire gli umori fondi del Sud, ed aveva bisogno dei salotti in penombra, delle tappezzerie, di un po’ di romanticismo.
Non fu tuttavia una sconfitta, ma una metamorfosi. E questa è forse la prova più valida dello spirito industriale che anima la gente di questa contrada: fecero il Marsala all’uovo, all’aroma di caffè, alla mandorla, alle prugne, con il sapore della fragola, ed infine rilanciarono in tutto il mercato internazionale il vino dolce da tavola, quello che impegna maggiormente l’attuale produzione e che praticamente viene considerato ovunque, in Germania e in Austria soprattutto, il più tipico dei vini meridionali.
Cinquecento milioni di litri l’anno, un fatturato di circa cinquanta miliardi di lire, un gigantesco movimento di denaro attorno al quale vivono cinquemila operai, dirigenti ed impiegati dei cinquanta stabilimenti, almeno quarantamila agricoltori in tutta la sterminata piana di Trapani, e sette istituti bancari che a loro volta alimentano tutte le altre attività industriali, la produzione del sale in tutta la plaga che confina con il mare, l’attività edilizia ed imprenditoriale nei centri più importanti, l’attività delle cave di pietra e marmo e l’armamento dei tre grandi centri pescherecci del litorale, compreso quello di Sciacca.
Trapani è l’affabile capitale che amministra il peculio, si costruisce i palazzi più alti e imponenti, si consente il deficit comunale più pauroso del Meridione, fa gli onori di casa ai turisti, si concede il flebile lusso di un’attività mondana sulla montagna più strana e affascinante dell’isola, ospita i funzionari, i militari del distretto, accoglie le navi degli stranieri ed i panfili, presta garbatamente denaro e amichevolmente ne esige. Ma il cuore della provincia è a Marsala, in quei cinquanta stabilimenti che fabbricano vino per tutto il mondo, in questa città di pietra gialla, di palazzi bassi e decorosi, di strade minuscole come certe calli veneziane, dentro le quali circolano quasi la metà delle quarantottomila automobili immatricolate in tutta la provincia. La residenza dei califfi
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