I catanesi rispettano soltanto i vincitori. Hanno troppa fretta per indulgere alla pietà, sono troppo egoisti per leccare le ferite degli altri; infine rispettano troppo il denaro per compromettersi o perdere tempo con gli sconfitti. Oltretutto il catanese, a differenza di qualsiasi altra popolazione siciliana, non ha una concezione tragica della vita
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania
I catanesi rispettano soltanto i vincitori. Hanno troppa fretta per indulgere alla pietà, sono troppo egoisti per leccare le ferite degli altri; infine rispettano troppo il denaro per compromettersi o perdere tempo con gli sconfitti. Oltretutto il catanese, a differenza di qualsiasi altra popolazione siciliana, non ha una concezione tragica della vita. Il siracusano ad esempio fin quando l’industria non gli sconvolse la coscienza, se ne stava immobile a contemplarsi e covava l’orgoglio delle cose che erano state ed aveva irrimediabilmente perduto; e tutt’ora è malinconico e fatalista, convinto cioè che le cose migliori del mondo, l’amore per la bellezza e la cultura, la poesia, una maniera bella di morire, siano perdute per sempre.
Il porto di Siracusa volge a ponente: il sole vi tramonta in un groviglio di fantastiche nubi, in un lampeggiare giallo e rosso sull’acqua. Il siracusano siede sulle panchine della sua marina e guarda immobile il tramonto, fuma in silenzio ed è quasi felice.
Un catanese non resterebbe mai un quarto d’ora così, a guardare il tramonto, e giustamente infatti, dalle sue parti, il sole tramonta in fondo alle sciare, in una specie di nebbia, un polverone di macchine. Il catanese è forse l’unico siciliano che abbia il senso dell’umorismo, cioè una capacità ed un desiderio costante di prendersi scherno d’ogni cosa; ama se stesso e tutti coloro che gli possono essere utili, pensa raramente alla morte e semmai con un senso di rancore.
Ci sono paesi del Sud, piccoli, miserabili e infelici paesi, che hanno però cimiteri da leggenda, cupole, statue, campanili, croci gigantesche, pinnacoli, altari. Il cimitero di Catania invece è uno dei più disadorni, le tombe non sono monumenti, ma tombe e basta, cioè posti dove si mettono coloro che sono morti e non servono più.
Fondata la sua esistenza su tre o quattro ideali definitivi ed inamovibili, la famiglia, Bellini, il suo personale benessere, il catanese gli altri ideali se li sceglie di volta in volta, fra quelli con maggior probabilità di successo. Perciò il catanese rispetta solo i vincitori. E’ una maniera di vivere che costituisce la coscienza della città. Appena la loro squadra di calcio cede all’avversario, i catanesi la circondano di un astioso silenzio, poi cominciano le grida isolate di scherno, le beffe. Infine abbandonano i vinti. Non infieriscono, semplicemente se ne vanno per non essere rattristati dallo spettacolo della sconfitta. In ogni altro settore accade egualmente.
Ci sono stati a Catania uomini politici che sembrava avessero sul palmo della mano il cuore della città: camminavano in mezzo alle strade e gli occhi della folla li seguivano lustri di devozione ed amore; le loro anticamere erano piene di postulanti, clienti, amici, elettori, tecnici, professionisti. Erano così rispettati che sembrava la popolazione li avesse adottati come figli prediletti: e la popolazione continuava ad amarli anche se erano talvolta palesemente inadatti al loro compito, o mentivano o imbrogliavano, poiché il catanese perdona e umanamente capisce l’imbroglio, purché sia avallato dalla potenza, purché sia al servizio di una vita vittoriosa.
Ci sono stati a Catania sindaci di popolarità clamorosa, sembravano davvero i padroni della città, sembravano inamovibili, uscivano dal Palazzo degli Elefanti come gli antichi senatori romani uscivano dal foro, con una coorte di clienti che si aprivano a ventaglio al loro passaggio, amorosi e protettori.
Appena hanno finito di essere sindaci, il catanese li ha cancellati dal suo sentimento, non nutre per loro né rispetto, né devozione, e nemmeno disistima, rancore o inimicizia: semplicemente non li considera più. Sono diventati zero. Soprattutto per gli amici, poiché questi non riescono a perdonare un amico potente che poteva garantire loro raccomandazioni, posti e prebende, ed ora per debolezza o disattenzione, non può garantirgliene più.
Appena tre anni or sono a Palazzo degli Elefanti sedeva un vicesindaco che era il più potente vicesindaco che la città avesse mai avuto nel dopoguerra. Era uno spettacolo: i devoti, i cortigiani, i postulanti, gli ammiratori gli brulicavano attorno. Poi lo arrestarono per aver disposto appunto di pubblico denaro a favore degli amici: ma prima ancora che lo arrestassero, lo stesso giorno che il magistrato lo mandò a chiamare con i carabinieri, egli si ritrovò di colpo quasi solo. Ora è in carcere ed è molto ammalato.
È un uomo finito che ha pagato per sé e per gli altri. Eppure nessuno di coloro che un giorno gli brulicavano addosso come tante mosche va a tendergli coraggiosamente una mano e fargli sentire una voce amica. Non era il peggiore. Era come molti altri che però erano più astuti e guardinghi; in definitiva era un uomo politico come i catanesi vogliono che siano i loro uomini politici, personaggi ai quali si deve poter chiedere di tutto, la cancellazione di una contravvenzione, un posto di bidello, venti metri di suolo pubblico, il nulla osta per una sopraelevazione di cinque piani, il permesso per transitare col camion in via Etnea, l’assunzione municipale come avventizio da ratificare poi con un concorso interno, una licenza di commercio, un salariato da far passare nell’organico degli impiegati d’ordine, una pompa di benzina sulla litoranea, sul lungomare, in via Etnea... In cambio gli danno i voti, cento, duecento, mille voti a testa.
Così alla fine un uomo politico è spesso soltanto un uomo che è stato eletto con i voti peggiori dell’elettorato, cinque o diecimila cittadini che hanno già offeso o che vogliono ancora violare la legge: e quando egli assume il suo ufficio è il depositario di cinque o diecimila mandati di imbroglio. Ecco perché in definitiva Catania non ha mai avuto una vera grande classe dirigente, che fosse cioè al livello delle sue enormi possibilità dinamiche; gli uomini di talento che sono andati al governo della città si contano sulla punta delle dita, e coloro che al talento univano l’onestà intransigente, sono stati ancora di meno.
È un fenomeno che spiega molte cose oltraggiose o incredibili, cioè altri fenomeni che praticamente non hanno una giustificazione politica o umana. Chi va al governo di Catania, anzi, nel senso più vasto, coloro i quali esercitano politica in questa città, sanno che non saranno valutati tanto per i loro ideali, quanto per quello che faranno, per gli amici che riusciranno ad appagare e per il segno che riusciranno a lasciare sul volto della città.
Così Catania è un’assurda città piena di opere sensazionali e tutte incomplete; gli uomini politici di turno le iniziavano con la volontà, con l’ansia di chi spera di erigere un monumento a se stesso, e poi venivano sbalzati via dalle vicende della politica. I successori non conducevano mai a termine quell’opera poiché essa avrebbe ricordato troppo il loro predecessore; la lasciavano perdere, che andasse in rovina la malnata, e subito ne iniziavano un’altra, che fosse più alta, più imponente e imperitura. Non arrivavano naturalmente a metà!
Nel Sud l’esecuzione di una grande opera pubblica dura molto di più della vita politica di un personaggio, ed oltretutto anche nella politica lo spirito catanese conserva una fretta e un’avidità irrefrenabili. Alla base di ogni uomo politico ci sono interessi che lo reggono fin quando altri interessi non prendono il sopravvento e con una spallata non buttano giù il capofila con tutti i suoi amici.
Per esempio al Tondo Gioeni si doveva costruire un grande parco pubblico, ma la collina oramai è stata devastata da orribili edifici privati, ancora più brutti dei «tolli» di Agrigento che pure hanno scandalizzato l’Italia. Ai piedi di questa collina otto anni or sono venne messa mano ad un incrocio stradale che, secondo i calcoli dei progettisti, sarebbe venuto a costare circa cento milioni. Prevedeva un ponte, una sede stradale a doppia carreggiata ed un tunnel. Tante volte l’opera è stata interrotta e ricominciata che già di milioni se ne sono spesi trecento, e tuttavia ancora oggi essa non è utilizzabile, il cemento armato si è già sgretolato, i ferri sono contorti, il tunnel è in sfacelo.
La Regione non ha voluto tirare più fuori un solo quattrino ed il Comune ha dovuto assumersi da solo l’onere del risanamento. Chi percorre così la circonvallazione viene ingoiato al Tondo Gioeni da caotici ingorghi di vetture. Né d’altro canto, superato questo ostacolo, potrebbe riuscire a percorrere la circonvallazione, poiché questa arteria, lunga sei chilometri e costata finora ben due miliardi, manca degli ultimi dieci metri. Finisce in un burrone.
Dalla parte opposta, dove essa dovrebbe continuare innestandosi alla litoranea per Acicastello, ci troviamo addirittura dinnanzi ad un autentico caso di sadismo urbanistico. La litoranea corre lungo la riviera etnea, forse nel suo tratto più affascinante: da una parte la scogliera a strapiombo sul mare e dall’altra gli aranceti e la mole dell’Etna.
Questa zona appunto avrebbe dovuto essere da tempo un rigoglio di alberghi, di splendide ville, di iniziative turistiche; ma la litoranea da otto anni è cieca. Realizzata nel suo tratto centrale, non è stata mai completata, né alle porte di Catania, all’innesto con Acicastello, anzi è stata letteralmente abbandonata al suo destino. Le balaustre sono state divelte, l’asfalto è sprofondato, immani depositi di spazzatura fermentano fra le scogliere o lungo le scarpate.
E, dall’altra parte del golfo di Ognina, il maestoso lungomare, per realizzare il quale si dovette costruire un tunnel di sei miliardi, non ha una sorte migliore. Una fungaia di grandiosi palazzi sta sorgendo a monte ma lungo il mare corrono due chilometri di immondizia in putrefazione, i sedili sono stati spezzati, le fioriere accartocciate, e scheletri di cani biancheggiano fra gli scogli. Ciò nonostante il progresso di Catania, anzi il ritmo della sua tumultuosa crescita in ogni settore, supera quello di qualsiasi altra grande città del Sud.
Le vendite dei suoi grandi magazzini sono superiori a quelle di Palermo e addirittura della stessa Napoli; gli empori di lusso catanesi potrebbero state alla pari con quelli di Londra o Milano, ogni anno che passa altre quindici o ventimila automobili vengono immesse nella mischia del traffico cittadino, ville di inaudita ricchezza gremiscono già tutte le colline più basse del vulcano, estendendo praticamente l’area cittadina su un raggio di quasi venti chilometri e facendo di Catania l’unica città metropoli del Sud per istinto urbanistico.
© Riproduzione riservata