- Con il vertice COP26, rinviato al 2021, l’Europa ha l’occasione per riprendere un ruolo guida nel processo di decarbonizzazione, indicando la strada di una carbon tax globale e abolendo i sussidi ai combustibili fossili.
- Carbon tax e sussidi ai fossili sono misure contrapposte: si sovrappongono in modo disordinato e inefficiente.
- Se si calcola la differenza tra il costo cui sono soggette le emissioni di CO2 e i sussidi al consumo erogati ai combustibili fossili, ogni tonnellata di carbonio riceve un compenso netto di 15 dollari!
L’occasione politica è offerta dalla presidenza italiana e britannica della COP26 nel 2021, la Convenzione delle Parti sul clima delle Nazioni Unite, rinviata di un anno. E’ l’occasione per l’Europa di riprendere un ruolo guida nel processo di decarbonizzazione, indicando la strada di una carbon tax globale e ottenere il risultato minimale della abolizione dei sussidi ai combustibili fossili. Non è una proposta irrealistica, politicamente.
La border carbon tax per internalizzare il prezzo dell’inquinamento ambientale nei costi delle fonti fossili è già nello European Green Deal e da anni l’introduzione di una carbon tax è al centro delle raccomandazioni di policy di Janet Yellen, allora banchiera centrale, oggi ministra del Tesoro nel nuovo corso di Joe Biden; mentre il presidente cinese Xi Jin Ping ha già espresso l’obiettivo di portare la Cina verso una crescita a emissioni zero al 2060. Negoziare una tassa uniforme sul carbonio il cui ricavato fosse trattenuto dai singoli Stati, compatibilmente con la loro posizione nell’economia globale, sarebbe un modo efficace di superare comportamenti opportunistici nazionali nei confronti di un bene pubblico globale quale è il clima.
La COP26 di Glasgow deve tornare a far sperare il mondo.
Siamo noi l’asteroide
Sessantasei milioni di anni fa un enorme asteroide colpì la penisola dello Yucatan uccidendo 75 per cento delle specie viventi sulla terra. Si fa risalire ad allora l’estinzione dei dinosauri. Nel 2013, il 15 febbraio, un asteroide di 20 metri esplose in cielo sopra la città russa di Chelyabinsk. In quell’occasione si tornò a parlare del rischio di estinzione dell’umanità e di distruzione del pianeta dovuto all’esplosione di asteroidi. «Oggi siamo noi l’asteroide», scrive Elizabeth Kolbert, in Sesta Estinzione, premio Pulitzer 2015; mettiamo a rischio la sopravvivenza dell’umanità in un ambiente divenuto ostile, di cui il cambiamento climatico è il principale responsabile. Il mondo ha colto il rischio di questa catastrofe e finalmente reagisce.
L’inversione di tendenza rispetto al Novecento, il secolo del petrolio, pare ormai segnata. Ma i tempi sono stretti. L’urgenza di una governance globale in grado di affrontare questo problema è evidente. La COP26 delle Nazioni Unite è un ottimo punto di ripartenza per definire indirizzi cooperativi, dove gli Stati Uniti saranno rappresentati da John Kerry, che da ministro degli Esteri firmò con Barack Obama gli Accordi di Parigi.
Il vero costo del carbonio
E’ anche evidente che il carbonio deve avere un costo per chi lo genera, nell’uso o nella produzione, nel sistema di mercato in cui viviamo. Lo illustrò bene l’economista Arthur Cecyl Pigou (nel 1920) che introdusse il principio “chi inquina paga” e definì gli strumenti per minimizzare l’inquinamento del carbone che allora intossicava le città industriali.
Studiò l’impatto di una tassa da imporre sulle emissioni per inserire nei prezzi il costo del danno che provocano e, in alternativa, un sistema di permessi di inquinamento negoziabili, (come l’Ets, emission trading system, il mercato di permessi di emissione) ponendo un tetto al volume totale dei permessi rilasciati dal governo per evitare danni irreversibili all’ambiente. Infine affidò a politiche di sussidi il ruolo di promuovere comportamenti virtuosi, meno inquinanti.
Nella teoria economica che ipotizza mercati perfetti l’esito è identico: carbon tax e Ets rendono più costose le filiere industriali inquinanti e inducono nuove tecniche, nuovi processi produttivi, diverse materie prime, diversi comportamenti nel consumo che ridurranno l’inquinamento globale. I sussidi devono invece promuovere l’uso di fonti rinnovabili “pulite”, nei due settori che oggi sono responsabili di tre quarti delle emissioni di CO2 clima-alteranti: l’energia e i trasporti.
Wiliam Nordhaus, premio Nobel dell’economia nel 2018, ha stimato il costo appropriato di una tonnellata di carbonio in almeno 47 dollari a tonnellata, per compensare i danni e indurre un cambiamento nella crescita, nel suo modello (Dire). La Banca Mondiale (2019) stima un prezzo netto del carbonio di 40–80 dollari a tonnellata, da far crescere intorno ai 100 dollari dopo il 2020; L’Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, propone valori simili, tra i 75 e i 100 dollari per cambiare indirizzo in linea con gli Accordi di Parigi del 2015 (2020).
Il flop della scelta europea
L’Ue ha scelto nel 2006 la via degli Ets, i permessi di inquinamento negoziabili, che colpiscono il 45 per cento delle emissioni clima-alteranti europee. Più volte riformato, questo sistema non è certo un successo: il prezzo del carbonio è oscillato intorno ai 10 dollari a tonnellata fino al 2017 inferiore a metà del prezzo giudicato utile per promuovere tecniche alternative. Nel 2019 il prezzo è salito, ha sfiorato i 30 euro, non certo per meccanismi di mercato, ma grazie agli acquisti ingenti di permessi attivati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Un atto generoso di consapevolezza politica ? Non del tutto.
All’industria del carbone tedesca torna larga parte di quanto la Germania ha speso. Una recente riforma, per superare gli ostacoli di Polonia e Germania, grandi utilizzatori di carbone dalle miniere del proprio territorio, ha esteso l’esenzione dai permessi a 63 settori e ha distribuito permessi gratuiti «per non ridurne la competitività» e compensare il rischio che le industrie più esposte alla concorrenza estera spostino la produzione in paesi dove le politiche sul clima sono più blande o inesistenti (nel gergo comune, per il timore di “carbon leakage” delle imprese europee).
Nelle industrie esenti emerge la grande contraddizione: tra i settori che hanno diritto al 100 per cento dei certificati gratuiti (nel 2022 -2030) al primo posto c’è l’estrazione di carbone (!), al secondo i prodotti petroliferi (!), seguiti tra gli altri dall’industria dell’alluminio. Di fatto, l’onere del sistema Ets grava essenzialmente sui produttori di energia elettrica, che a loro volta la traslano sui consumatori. E ciò non basta certo a promuovere tecniche di produzione alternative alle fonti fossili.
Nel resto del mondo non si osservano risultati migliori: in Cina il nuovo mercato scambia i permessi di emissione a 12 dollari per tonnellata, in Irlanda a 28, in Slovenia a 19, in Nuova Zelanda a 14. Il confronto con i Paesi dove una carbon tax è da tempo in vigore è lampante: il prezzo del carbonio in Svezia è di 119 dollari a tonnellata, di 99 dollari in Svizzera, di 68 dollari in Finlandia, 53 in Norvegia, ma è sostenuto anche nel resto del mondo (33 dollari in Corea, 30 in Islanda). La differenza nelle emissioni è clamorosa.
Le tasse generano i gilet gialli?
La carbon tax evoca difficoltà politiche in Europa, dopo che la Francia è stata scossa dalle proteste dei gilet gialli nel 2018 nei confronti di una tassa sul diesel e sulla benzina introdotta da Emmanuel Macron e poi ritirata. Ma anche in quel caso il diavolo stava nei dettagli. I dati Ocse mostrano che tasse esplicite e accise sul carbonio in Francia sono le più alte in Europa, concentrate sui trasporti su strada, i più facili da tassare.
Fu un errore politico, dunque, colpire di nuovo quel segmento energetico, con una modalità percepita come iniqua e regressiva dai cittadini. Altri esempi, della Svezia, dell’Irlanda in Europa, come quello in costruzione in Canada, sono stati più consapevoli e utili.
Il paradosso dei sussidi
Ancora più paradossale è l’erogazione diffusa di sussidi all’uso di combustibili fossili. Carbon tax e sussidi ai fossili sono misure contrapposte: si sovrappongono in modo disordinato e inefficiente nella fiscalità globale. 35 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno si riversano globalmente nell’atmosfera, ma se si calcola la differenza tra il costo cui sono soggette le emissioni di CO2 – nella forma di tasse sul carbonio o acquisto obbligatorio di permessi di inquinamento (Ets)- e i sussidi al consumo erogati ai combustibili fossili, ogni tonnellata di carbonio riceve un compenso netto di 15 dollari!
Non sorprende che Ursula Van der Layen, che ben conosce le politiche europee e le loro procedure di attuazione accidentate, abbia introdotto una “border carbon tax” nel suo programma, che renda più costose anche le importazioni dai Paesi dove non sono in vigore regole restrittive sulle emissioni. Certo non si tratta di una misura protezionistica, ma di uno strumento allineato con gli obiettivi sul clima votato da tutti i Paesi negli Accordi globali del 2015. E’ questo il messaggio che l’Italia e l’Europa dovranno portare alla COP 26 di Glasgow.
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