Ossidi di Azoto e clima

Il crescente utilizzo di fertilizzanti azotati in agricoltura ha provocato, negli ultimi decenni, un’impennata della concentrazione atmosferica di protossido di azoto (N2O), il terzo gas serra di lunga durata più importante dopo l’anidride carbonica (CO2) e il metano (CH4).

Se l’andamento non dovesse cambiare l’aumento della temperatura media globale potrebbe superare anche di molto la soglia dei 2°C stabilita dagli accordi di Parigi 2015.

Lo dimostra uno studio pubblicato su Nature, coordinato dalla Auburn University (Alabama, Usa), sotto l'egida del Global Carbon Project e della International Nitrogen Initiative, che ha coinvolto scienziati di 14 Paesi e 48 Istituti di ricerca, tra cui l’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar).

Spiega Angela Landolfi, ricercatrice Cnr-Ismar e co-autrice della ricerca: «Il protossido di azoto è un importante gas serra e la sua presenza in atmosfera, dove può durare oltre 100 anni senza degradare, contribuisce per il 7 per cento al riscaldamento globale causato dall’uomo. Il nostro studio ha evidenziato che, negli ultimi decenni, il protossido di azoto è aumentato del 20 per cento rispetto ai livelli preindustriali. La ragione principale dell'aumento è il crescente utilizzo di fertilizzanti azotati nella produzione alimentare in tutto il mondo».

I tassi di crescita più elevati per le emissioni di N2O provengono da paesi emergenti in cui la produzione alimentare è aumentata notevolmente, in particolare Brasile, Cina e India. L'Europa è l'unica regione al mondo che ne ha ridotto le emissioni negli ultimi due decenni, grazie a stringenti politiche agricole e industriali.

La più grande eruzione europea

Quando l’Europa era la terra dei Neanderthal e l’Homo Sapiens aveva da poco iniziato ad esplorare le terre al di fuori dell’Africa, un evento naturale segnò la storia di entrambe le specie: fu un’enorme eruzione vulcanica, che si verificò ai Campi Flegrei, la cui violenza influenzò il clima di tutto il mondo.

Successe 39.800 anni fa quando il vulcano esplose dando vita alla cosiddetta eruzione dell’”Ignimbrite Campana”: un evento che modificò per sempre la conformazione fisica della regione, ricoprendola con uno spesso strato di roccia piroclastica, chiamata appunto “ignimbrite”.

Fino a oggi il volume dei depositi di tale materiale, e di conseguenza l’intensità dell’eruzione, erano sconosciuti. Ma uno studio pubblicato su Frontiers in Earth Science a firma di Aurora Silleni, Guido Giordano, Roberto Isaia e Michael Ort, fornisce per la prima volta una stima del volume dell’eruzione che dovrebbe essere stata compresa tra i 181 e i 265 chilometri cubi di magma. Questo fa pensare che l’eruzione ebbe un “indice di esplosività” (VEI) di 7.7-7.8 (nella scala che va da 0 a 8), a pochi passi dalle maggiori eruzioni mai verificatisi in tutta la storia del pianeta.

Influenza, Sole, stagioni

Alle nostre latitudini, ossia quelle temperate, è ben noto che la maggior parte delle malattie virali, dalle più banali influenze ai raffreddori, si trasmettono quasi sempre in autunno e in inverno. E Covis-19 con il suo ritorno in autunno ne è un’ulteriore conferma. C’è un motivo particolare?

Secondo un gruppo di ricercatori dell’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica), dell’Università Statale di Milano, dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) della Lombardia e dell’Irccs Fondazione Don Gnocchi la risposta alla domanda è da cercare anche nella nostra stella, il Sole.

Il gruppo di ricercatori ha realizzato un modello matematico secondo il quale esiste un’evidente correlazione dell’andamento di tali epidemie con l’irraggiamento solare che arriva a Terra durante il giorno e quindi con le stagioni. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista iScience.

Spiega Fabrizio Nicastro dell’Inaf e responsabile del lavoro: «Il modello che abbiamo messo a punto propone una risposta semplice al problema. Sappiamo che la luce ultravioletta è in grado di rendere innocui per l’organismo molti virus e batteri, anche se la dose necessaria è legata al tipo di virus o batterio».

I raggi Uv che arrivano dal Sole dunque, hanno una sorta di potere “antisettico” là dove arrivano. Non c’è dubbio – sottolineano i ricercatori – che il tipo di virus da distruggere è un elemento importante nella lotta, ma la forza del Sole sarà senz’altro maggiore durante i periodi dell’anno durante i quali l’irraggiamento è maggiore e quindi primavera e soprattutto estate, mentre sarà minore nei periodi con irraggiamento più basso e dunque autunno e inverno.

Il modello messo a punto dai ricercatori dimostra di essere in linea con la stagionalità osservata in diverse parti del Pianeta per epidemie virali con indice di contagio di vario tipo.

«I dati dell’epidemia Sars-CoV-2 in Italia sono anch’essi ben descritti dal nostro modello - sottolinea Nicastro - ma le previsioni sul futuro dipendono oltre che dall’attuazione o meno di misure di contenimento, dalla efficienza del meccanismo di inattivazione del Covid-19 per mezzo dei raggi ultravioletti, che il nostro gruppo è in procinto di misurare in collaborazione con l’Università di Milano».

Sembrerà banale, ma un consiglio è di prendere la maggior quantità di Sole che ci offrono autunno e inverno

Quanti alieni dietro l’angolo

Non sappiamo dove sono, ma sappiamo quanti potrebbero essere. Un nuovo studio, presentato sull’Astronomical Journal, realizzato da ricercatori della NASA, del SETI (un Istituto internazionale che studia e cerca la vita extraterrestre) e da altre organizzazioni internazionali è riuscito a dare un valore affidabile del numero di pianeti che sono potenzialmente abitabili nella nostra galassia.

Lo sostiene Jeff Coughlin, esperto del SETI. Il risultato è di per sé strabiliante: potrebbero esserci ben 300 milioni di pianeti in grado di ospitare la vita. Il calcolo è ovviamente statistico e si basa sull’“Equazione di Drake” modificata, una formula matematica messa a punto da Frank Drake nel 1961, la quale, attraverso una serie di ipotesi, permette di raggiungere il risultato.

Nell’equazione c’è, ad esempio, il valore del numero di stelle che potrebbero avere pianeti, oppure i pianeti che potrebbero esserci attorno a stelle nella fascia abitabile (dove la temperatura permette all’acqua di essere liquida) e così via con altri parametri.

Nel 1961 questi valori erano solo ipotetici, ma negli ultimi decenni grazie alle scoperte di oltre 4.000 pianeti extrasolari i parametri risultano più realistici. E questo ha portato gli scienziati alla conclusione che nella sola nostra Via Lattea ci sono centinaia di milioni di mondi con vita a diversi gradi, e quindi è probabile anche molto più intelligente della nostra.


Cani, amici da sempre

Già 11.000 anni fa, quando stava terminando l’ultima glaciazione sul nostro pianeta vi erano già diverse razze di cani che seguivano l’uomo.

Lo ha stabilito una ricerca condotta sul DNA di cani vissuti in quel periodo, realizzata da ricercatori del Francis Crick Institute, dell'Università di Oxford, dell'Università di Vienna e da vari archeologi di più Paesi.

Lo studio, pubblicato su Science, ha sequenziato il DNA di fossili di 27 cani, alcuni dei quali accompagnavano uomini che vivevano in Europa, nel Vicino Oriente e in Siberia. E questo ha permesso di stabilire che, ancora prima che venissero addomesticate altre forme di animali, c'erano già almeno cinque diversi tipi di cane con diverse origini genetiche.

Ciò fa presupporre che i cani accompagnavano l’uomo quando questi era ancora cacciatore e raccoglitore. Spiega Pontus Skoglund, autore e capogruppo del laboratorio di genomica antica di Crick: «Alcune razze che oggi si vedono al guinzaglio di persone ebbero origine nell'era glaciale».

Certo, da allora i cani si sono mescolati e alcune razze che vivevano nel vicino Oriente e in Siberia non esistono più.

Lo studio ha messo in risalto anche due elementi particolari: da un lato il fatto che alcune razze sono nate in rapporto ai cambiamenti di vita che gli esseri umani che hanno avuto nel tempo, i quali si sarebbero portati con sé i cani durante le loro lunghe migrazioni.

Dall’altro il prevalere di alcuni lignaggi canini che hanno sostituito altre popolazioni senza un’apparente motivazione.

Sottolinea Ron Pinhasi dell'Università di Vienna: «Come lo studio del DNA dei nostri avi ha spesso rivoluzionato le conoscenze che avevamo di loro, lo stesso vale per i cani e altri animali domestici. E comprendere meglio i nostri compagni animali aggiunge un altro livello alla nostra comprensione della storia umana».

Il pianeta dove piovono rocce

Nel 2018 venne scoperto il pianeta K2-141b grazie ad un gruppo di astronomi guidati da Luca Malavolta dell’Inaf di Padova.

Si capì subito che l’esopianeta è roccioso, simile alla Terra per dimensioni e composizione. Ma rispetto al nostro Pianeta ruota molto vicino alla sua stella madre, tant’è che per compiere un’orbita impiega meno di 7 ore. Per capirci ogni sette ore c’è un capodanno.

Questa condizione ha portato il pianeta a mostrare sempre la stessa faccia alla stella. Un po’ quel che succede tra la Luna e la Terra.

Ciò significa che circa due terzi della superficie siano costantemente esposti alla luce del giorno. Il lato notturno, quello che non vede mai la stella, registra temperature inferiori a -200 °C, mentre il lato illuminato arriva a circa 3000 °C, una temperatura che è abbastanza torrida da fondere le rocce e da vaporizzarle creando in alcune aree un’atmosfera molto sottile.
Una situazione che fa pensare che su grandi aree vi siano oceani di lava fusa in superficie che da un calcolo realizzato da ricercatori della McGill University e altre università, avrebbero uno spessore di circa 100 chilometri.

Il vapore che si viene a creare ad un certo punto condensa e cade al suolo. Si può dire a ragion veduta che “piovono rocce”. In realtà precipitano al suolo monossido di silicio e biossido di silicio, che i venti, che viaggiano anche a 5000 chilometri all’ora, trasportano anche sul lato oscuro del pianeta. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

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