- Una scoperta archeologica di grande importanza porta a ipotizzare che l’uomo arrivò nelle Americhe anche 100mila anni fa. L’ipotesi nasce grazie alla scoperta di impronte fossili trovate nel cuore degli Stati Uniti.
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Grazie a una ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia è stato possibile mettere a punto un sistema estremamente affidabile di allerta maremoto. Un fenomeno che potrebbe colpire anche vaste aree dell’Italia.
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È una luna di Saturno l’oggetto del sistema solare più semplice dove cercare la vita extraterrestre. Basterebbe passare tra i geyser che emette Encelado per cercare sostanze organiche se esistono nell’oceano sottostante la crosta ghiacciata.
È forse la scoperta archeo-paleontologica più importante degli ultimi anni. È una vera e propria rivoluzione rispetto a quello che si credeva a proposito della colonizzazione delle Americhe. Un gruppo di ricercatori infatti ha dimostrato che l’uomo colonizzò le aree centrali degli attuali Stati Uniti ben 7mila anni prima rispetto a quanto pensato fino ad ora.
La scoperta è stata fatta sulle rive dell’antico letto di un lago che si trova nel White Sands National Park del New Mexico, dove un numeroso gruppo di impronte umane ben definite risale a 23mila anni fa. Sono senza dubbio le impronte più antiche mai trovate in Nord America.
Lo studio pubblicato su Science racconta che le prime impronte erano state scoperte nel 2009, ma solo nel 2016 sono iniziate le analisi e le ricerche su alcune di esse. Alla conclusione che sono così antiche si è giunti dopo essere riusciti a datare dei semi trovati nei sedimenti dove ci sono le impronte degli uomini.
In passato, non si era mai riusciti a far ciò e dunque la datazione si basava solo su oggetti costruiti dall’uomo che si trovavano in prossimità di calchi e questo rendeva impossibile datazioni di impronte quando non si trovavano manufatti accanto. E se ci si rifà a questi ultimi va detto che non ne sono mai stati trovati che avessero più di 13-14mila anni circa. Ecco perché si è sempre pensato che i primi uomini fossero arrivati in America del Nord sfruttando l’ultima glaciazione, la quale, causando un abbassamento dei mari, avrebbe permesso di passare dall’Asia alle Americhe attraverso ponti naturali.
Tuttavia quegli uomini si sarebbero dovuti stabilire vicino all’Artico perché le calotte glaciali che coprivano il Canada avrebbero reso impossibile andare verso sud. E solo successivamente, tra 16mila e 13.500 anni fa, una volta che i ghiacciai si fusero, iniziò la migrazione verso il meridione degli Stati Uniti. Ma ora, con la nuova scoperta, bisogna rivedere tutto ciò.
Matthew Stewart, uno zooarcheologo del Max Planck Institute che non ha partecipato alla ricerca ma ne ha valutato i dati, sostiene che i risultati siano “inequivocabili”. Spiega Sally Reynolds, paleoecologista della Bournemouth University in Inghilterra e co-autrice del nuovo studio: «La nuova scoperta colloca definitivamente gli esseri umani nel Nord America in un momento in cui i ghiacci polari erano notevolmente espansi. Questo significa che gli umani sono migrati a sud in più ondate e una di queste è avvenuta prima dell’ultima èra glaciale. Quelle prime persone potrebbero aver navigato lungo la costa del Pacifico. Poi, dopo che i ghiacciai si ritirarono, ci sono state altre migrazioni».
Se le parole della ricercatrice vanno prese alla lettera significa che i primi uomini arrivarono nelle Americhe prima di 100mila anni fa. Ipotesi precedenti a questa ricerca che facevano pensare alla possibile esistenza di uomini nelle Americhe ben prima di 15mila anni fa furono avanzate dopo uno studio in una remota grotta messicana dove vennero trovati dei manufatti che sembravano avere 32mila anni, ma gli indizi erano troppo vaghi per averne una certezza assoluta.
Ma come sono arrivati quei primi uomini al sito di White Sands? È molto difficile dare una spiegazione certa, anche se l’ipotesi principale suggerisce che quegli uomini arrivarono in barca salpando dall’odierna Russia o dal Giappone per seguire le coste dell’oceano Pacifico. Dunque potrebbero essere stati dei provetti navigatori.
Come la plastica cambia il clima
L’inquinamento da plastica marina e il cambiamento climatico si esasperano a vicenda, creando condizioni estremamente pericolose per gli oceani di tutta la Terra. È la conclusione di una ricerca che per la prima volta ha studiato l’impatto combinato tra l’inquinamento da plastica e i cambiamenti climatici sui mari.
La ricerca ha messo in luce tre modi con i quali i due fenomeni impattanti si legano tra loro. Il primo riguarda le emissioni di anidride carbonica, che per la plastica ha preso in considerazione la produzione, la commercializzazione e – quando c’è – il riciclaggio. Il secondo ha preso in esame le condizioni meteorologiche estreme dettate dai cambiamenti climatici (dove le emissioni di anidride carbonica dovuta anche alla produzione della plastica ne sono la causa prima) e come uragani e inondazioni vadano a disperdere e ad aggravare l’inquinamento da plastica. La terza modalità di unione tra i due elementi alteranti dell’ambiente esamina come gli ecosistemi e le specie che vivono in essi risultino particolarmente vulnerabili ad entrambi i fenomeni degradanti. E purtroppo lo studio prevede che tra il 2015 e il 2050 ci sarà un’emissione di più di 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, che risulta essere circa il 13 per cento dell’intera quantità di gas serra che si dovrebbe emettere per evitare un’evoluzione catastrofica del riscaldamento globale per l’uomo.
Sottolinea Helen Ford della Bangor University, che è l’autrice principale della ricerca: «Io studio in modo particolare le barriere coralline e giorno dopo giorno vedo quanto queste siano vulnerabili ai cambiamenti climatici. Ho visto come anche le barriere coralline più remote stiano soffrendo di fronte al problema plastica e clima alterato al punto d’avere una diffusa morte dei coralli in seguito al loro sbiancamento. Dobbiamo capire sempre meglio come queste minacce alla vita oceanica interagiscano tra loro per evitare il crollo senza possibilità di ritorno».
Prevedere gli tsunami
È ormai noto quello che possono causare gli tsunami, ma forse non tutti sanno che possono colpire duramente anche alcune coste del Mediterraneo, Italia compresa. Quel che successe subito dopo il terremoto di Messina del 1908 non può essere dimenticato, in quanto lo tsunami che ne seguì fu concausa degli oltre 100mila morti che si ebbero in quella occasione.
Si è lavorato a lungo per trovare il modo di prevedere uno tsunami e ora, finalmente, è stato messo a punto il “Probabilistic tsunami forecasting” (Ptf), un’innovativa procedura che permette, in tempo reale, la determinazione del livello di allerta da maremoti, tenendo conto anche della inevitabile incertezza sulla previsione degli stessi.
La nuova procedura, che potrebbe introdurre una svolta nella gestione delle allerte tsunami, è stata creata da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ed è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature Communications. Spiega Jacopo Selva del centro allerta tsunami dell’Ingv: «Il Ptf quantifica la probabilità che si verifichi uno tsunami di una determinata intensità entro pochi minuti dalla scossa di terremoto che potrebbe averlo generato. Esso offre la possibilità di collegare la definizione del livello di allerta precoce, quello che i geofisici chiamano “early warning”, alla previsione dell’intensità del possibile tsunami e alla relativa incertezza, in base a prestabiliti criteri di riduzione del rischio».
Sottolinea Stefano Lorito, co-autore dello studio: «Le previsioni vengono effettuate combinando i parametri del terremoto stimati in tempo reale con milioni di simulazioni numeriche della propagazione dello tsunami, pre-calcolate grazie a moderni supercomputer. Il gruppo di ricerca ha applicato il Ptf, a posteriori, a diversi eventi sismici tra cui il terremoto di magnitudo 8,8 che nel 2010 ha colpito Maule, in Cile, lo tsunami di Zemmouri-Boumerdes, in Algeria, generato nel 2003 da un sisma di magnitudo 6,8, e lo tsunami generato quasi un anno fa dal terremoto di magnitudo 7,0 avvenuto in prossimità dell’isola greca di Samos. Sono stati analizzati anche tutti i terremoti localizzati nell’area mediterranea che hanno attivato il centro allerta tsunami dell’Ingv negli ultimi anni. Ciò ha permesso di valutare l’accuratezza del modello previsionale su un ampio ventaglio di magnitudo e tipologie di eventi sismici, dai terremoti crostali relativamente piccoli agli eventi di maggiore entità generati in zone di subduzione. E i risultati sono stati eccellenti.»
Questo importantissimo passo, deve ora essere sostenuto da adeguate scelte politiche del territorio, considerando che ogni livello di allerta può corrispondere a determinate fasce costiere da evacuare. Questo nuovo approccio sull’allarme tsunami che tiene conto anche dell’incertezza, in futuro potrebbe essere molto utile non solo per salvaguardare le persone ma anche per attivare procedure che salvaguardino gli impianti industriali in casi di emergenza.
C’è vita su Encelado?
Nel 2005, la sonda spaziale Cassini della Nasa e dell’Esa, che studiò Saturno e alcune sue lune per diversi anni, trovò prove che pennacchi di ghiaccio d’acqua eruttavano da Encelado – una delle lune del pianeta – come veri e propri geyser che fuoruscivano dalla regione del Polo Sud.
Studi successivi hanno suggerito che questi pennacchi provengono da un oceano sotterraneo, situato sotto un guscio ghiacciato, che potrebbe sostenere condizioni adatte alla vita. La stessa Cassini non era in grado di cercare la vita nei pennacchi, in mancanza degli strumenti necessari, ed è per questo che Richard Mathies dell’Università della California, Berkeley e il suo gruppo di lavoro hanno eseguito esperimenti per capire se una missione futura possa essere in grado di farlo.
Sparando particelle di ghiaccio su una lamina di metallo con una pistola a gas a velocità fino a diversi chilometri al secondo, i ricercatori hanno simulato l’impatto del ghiaccio di Encelado con un veicolo spaziale che vola attraverso i pennacchi. I loro esperimenti hanno dimostrato che anche a velocità fino a 3 chilometri al secondo, una navicella spaziale potrebbe catturare materiale sufficiente da studiare a bordo per cercare prove di vita, come amminoacidi o zuccheri.
Spiega Mathies: «Le molecole organiche sopravvivono all’impatto e se un veicolo in orbita attorno a Saturno viaggiasse a velocità inferiori a 3 chilometri al secondo potrebbe campionare i pennacchi sorvolando Encelado». Se poi orbitasse proprio attorno alla luna, sarebbe ancora più lento – 200 metri al secondo – rendendo la cattura del campione ancora più efficiente. «Encelado rappresenta un’eccezionale opportunità per cercare la vita aliena, perché fondamentalmente ci presenta automaticamente campioni di materiale da analizzare».
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