È toccato a Faenza, poi a Savona, poi a Bologna, poi a Lamezia Terme: l’Italia sta diventando il paese dell’alluvione permanente, dove ci sono sempre un sindaco e una comunità che stanno lottando contro fango e acqua.

Secondo il rapporto Città Clima di Legambiente negli ultimi dieci anni ci sono stati 684 allagamenti, 166 esondazioni, 82 frane causate da piogge: un collasso idraulico ogni quattro giorni. Questi i dati Ispra sull’Emilia-Romagna, epicentro dei nostri difficili rapporti con l’acqua: 11,6 per cento del territorio allagabile ogni 20-50 anni, il 45 per cento allagabile ogni 100-200 anni. La provincia di Ravenna è inondabile all’80 per cento, quella di Ferrara al 100 per cento.

Dalla 1944 al 2009 la media nazionale dei danni idrogeologici (aggiustata all’inflazione) era di 4,2 miliardi all’anno, tra il 2010 e il 2023 è stata di sei miliardi.  Come aver aggiunto una nuova tassa dell’acqua di quasi due miliardi all’anno, senza contare i costi in termini di vite umane, crisi di salute mentale e spostamenti forzati permanenti, che qualcuno inizia già a chiamare migrazioni interne.

Geografia e clima

Le inondazioni stanno diventando un enorme problema sociale, ma per risolvere il problema sociale dobbiamo partire dalla realtà fisica di come si combinano la geografia dell’Italia e il cambiamento climatico. Un incastro nato per creare guai.

«Il territorio italiano è complicato, non somiglia a quello di nessun altro paese, con la maggioranza dei fiumi ripidi e torrentizi che scendono dalle montagne», spiega Giulio Boccaletti, direttore scientifico del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici.

Quando piovono 100 mmm di acqua ci sono 40 milioni di metri cubi di acqua che da qualche parte devono andare. «L’acqua è incomprimibile, nessuna buona pratica ti aiuta a gestirne 40 milioni di metri cubi». L’adattamento ai cambiamenti climatici non piace alla politica per questo, per i suoi dividendi di consenso incerti, perché è costoso, ha bisogno di tempo, ti porta a scontentare qualcuno, se funziona è invisibile e non è merito di nessuno, e non è fatto di soluzioni vistose con cui passare all’incasso: nessuno può far sparire l’acqua.

Boccaletti fa l’esempio del ponte di Genova dopo il crollo del Morandi, costruito in un anno. «Se c’è volontà politica si può fare molto, ma non c’è un piano né una legge che mandino via l’emergenza climatica». Nessuno costruisce il «ponte Morandi dell’adattamento climatico» perché sarebbe un’infrastruttura politicamente invisibile.

Le operazioni da fare 

La prima operazione da fare è a monte: si parla molto di una legge sul consumo urbano di suolo, che sarebbe opportuna, ma la cura del territorio parte da Alpi e Appennini, dove comincia il viaggio verticale dei fiumi. Le soluzioni sono infrastrutture naturali, boschi meglio gestiti e più biodiversi , con un suolo in grado di trattenere più acqua e ridurre la potenza del rubinetto che si scarica sulle città. Non basta ma aiuta. La seconda opzione sono le grandi opere, dighe e invasi come la traversa in progettazione sul Tagliamento, che però è contestata dalla comunità scientifica.

Come spiega Boccaletti, «il problema delle grandi opere è che può sempre arrivare una piena in grado di superarle». È lo stesso punto di vista di Andrea Goltara del Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, uno dei massimi esperti di idraulica fluviale in Italia. «Gli argini non riducono il rischio, ma lo moltiplicano, perché ti convincono di essere al sicuro, che al di là dell’argine si potrà fare tutto in sicurezza, e questa sicurezza col cambiamento climatico non ce l’abbiamo, come dimostrano i disastri in Romagna, il territorio più ingegnerizzato d’Italia».

La terza opzione è quella che manda in fibrillazione i territori, soprattutto quelli dove gli agricoltori sono più forti: restituire spazio ai fiumi. È l’idea della nature restoration law europea e quella su cui la comunità scientifica è più allineata. Serve un nuovo patto tra città e campagna, che devono imparare a gestire insieme l’acqua.

Spiega Boccaletti: «O il fiume esonda dove decidiamo noi, o esonda dove decide lui. L’acqua non può sparire. Il sacrificio dell’azienda agricola di Ravenna che si fece allagare per salvare la città va legalizzato e sistematizzato, servono patti di bacino per pagare quel ruolo come un servizio ecosistemico».

Una soluzione unica?

Quando ci sono problemi inediti e complessi, invece, c’è la tentazione di affidarsi al pensiero magico della soluzione unica: nel dibattito la soluzione unica sembra essere quella di scavare e ripulire i fiumi dalla vegetazione, come se un fiume «pulito» fosse un fiume di per sé meno pericoloso.

«Dobbiamo resistere alla tentazione delle risposte facili», spiega Goltara, «Cittadini e amministratori vogliono dalla scienza risposte valide per ogni contesto, ma quelle risposte non ci sono. Nelle aree meno antropizzate, dove ci sono pianure inondabili, la vegetazione va invece lasciata perché rallenta l’acqua. In prossimità delle città va eliminata, ma dobbiamo eliminarla sapendo poi che l’acqua si ripresenta altrove».

Per sfuggire alla tentazione delle risposte semplici, dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema di progettazione al clima che verrà: la formazione accademica, quella degli ingegneri, quella dei magistrati, i dati storici su cui basiamo le infrastrutture. In Italia, racconta Goltara, non c’è ancora un censimento dei fiumi tombati come quello esondato a Bologna (dovrebbe arrivare l’anno prossimo, è un obbligo previsto dalla nature restoration law). Si naviga a vista, con idee e dati vecchi. L’adattamento è un tema di sviluppo, secondo Luca Ferraris, presidente di Fondazione Cima, e lo sviluppo richiede i decenni.

«Nel breve termine si possono lo stesso adottare misure, piccole azioni che mettono in sicurezza le comunità, come hanno imparato a fare a Venezia». È come se l’Italia oggi dovesse diventare una grande Venezia, imparare a convivere con l’acqua che sale. Per farlo, secondo Ferraris, dobbiamo superare un sistema che si basi esclusivamente sulla Protezione civile e sull’emergenza continua.

«Oggi ci sono strati e strati di autorità preposte, ma l’effetto che è tutto ricade sulla Protezione civile. Dovrebbe gestire il rischio residuo, invece oggi abbiamo lo stesso problema che abbiamo col Pronto Soccorso, che fa da supplente alle carenze di tutto il resto del sistema sanitario».

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