Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questa è Areale, la newsletter dedicata all’ambiente e al clima. «Adattiamoci o ci romperemo», ha detto a Gizmodo Newsha Ajami, direttrice del programma Water in the West della Stanford University. Il tema era la violenta siccità che sta colpendo l’ovest americano in questa estate, ma è davvero una frase che dovremmo tatuare in ogni politica pubblica legata al clima. Sono le due sole alternative che abbiamo davanti. E poi magari c’è la terza: andare a vivere in Nuova Zelanda.

Una ricerca del Global Sustainability Institute ha provato a ipotizzare quale possa essere il luogo migliore dove trovarsi in caso di collasso della nostra civiltà per cause ambientali o sanitarie. I posti migliori, secondo la ricerca, sarebbero Nuova Zelanda, Regno Unito, Irlanda, Islanda e Tasmania. Tutte isole. Ora, dal momento che nessun uomo è un’isola e nemmeno l’umanità intera può esserlo, meglio lavorare da ora sull’adattamento. Fine di questo lungo prologo, ora parliamo ancora di fuoco, colore e tendenza di questa complicata estate boreale. (Iscriviti qui, è gratis).

La costellazione del fuoco

Se facessimo in questo momento una fotografia dell’emisfero settentrionale, vedremmo una lunga striscia di fuoco che attraversa praticamente ogni continente. Gli incedi sono fenomeni locali con cause e soluzioni locali, ma la tendenza dei roghi ad andare fuori controllo e diventare ingovernabili è una delle principali questioni legate all’adattamento alla crisi climatica in corso. California, Oregon, Sardegna, Grecia, Turchia, Siberia: il nord del mondo è attraversato da una costellazione di incendi con una serie di cause in comune, elevate temperature, estati più lunghe, stress idrico, biomassa infiammabile.

I grandi roghi forestali degli Stati Uniti in questo momento sono dodici, coinvolgono principalmente la California e l’Oregon, procedono con un tasso di sviluppo e crescita che sembra peggiore della catastrofica estate del 2020, hanno già sviluppato sistemi meteorologici autonomi (con i tragicamente spettacolari firenado) e le conseguenze atmosferiche sono state avvertite fino all’altra costa, quella atlantica, con una spettrale coltre di fumo che ha avvolto New York. Il Dixie Fire, il più grande della California in questo momento, ha già bruciato oltre 80mila ettari, il Bootleg Fire in Oregon quasi il doppio.

I due incendi ci raccontano storie diverse ed entrambe ci riguardano: quello californiano si sviluppa in un’area popolata, minaccia migliaia di persone e ricorda sinistramente il Camp Fire, l’incendio boschivo con più vittime (85) della storia americana. Peraltro entrambi erano stati causati da una compagnia energetica, la Pacific Gas & Electric (per il Camp Fire già condannata). Il Bootleg Fire invece ha coinvolto anche foreste che erano state vendute nel mercato del carbon offset, il sequestro di carbonio dall’atmosfera in cambio di crediti. Ora quelle foreste non ci sono più, il carbonio è tornato nell’atmosfera e nessuna emissione è stata risparmiata.

È un fatto da ricordare quando le aziende equiparano la sostenibilità al piantare più alberi: i boschi, in crisi climatica, sono tutto meno che permanenti. L’unico modo per tagliare emissioni è tagliare emissioni. Il dato più preoccupante di tutti? Nell’ovest la stagione non è ancora entrata nel vivo, il peggio di solito arriva tra fine agosto e settembre.

Flames lick at a roadside as the Tamarack Fire burns in the Markleeville community of Alpine County, Calif., on Saturday, July 17, 2021. (AP Photo/Noah Berger)

Nel Mediterraneo non c’è stato solo l’orrore della Sardegna (uno dei peggiori incendi italiani degli ultimi anni) ma anche Cipro, Turchia e Grecia sono state duramente colpite. L’incendio di un bosco di pini a Dionysos, a nord di Atene, è stato a lungo fuori controllo e ha sfiorato anche la capitale, avvolta nel fumo come New York. In Turchia il fuoco ha colpito la turisticamente famosa provincia meridionale di Antalya, facendo quattro vittime. E poi c’è l’immane disastro ecologico che sta colpendo la Siberia. Parliamo di un milione e mezzo di ettari (per proporzione: in Sardegna erano 20mila) nella taiga della Yakutia, che non era mai stata così secca negli ultimi 150 anni e che ha raggiunto temperature oltre i 40°C. La Russia ha schierato i militari per combatterlo, ma non c’è esercito grande abbastanza da affrontare un fuoco con un fronte così ampio. A Yakutsk, la principale città della Yakutia, in questo momento la qualità dell’aria è pericolosa per la vita. Manca ancora un mese alla fine della stagione del fuoco in Siberia.

La reputazione di Shell

In questi giorni si discute molto della reputazione di Eni, e ovviamente il riferimento è alla diffida mandata contro Domani, e c’è una storia laterale, che viene da Londra e che riguarda gli stessi argomenti: la reputazione dei colossi delle fonti fossili e la libertà nel raccontare una crisi climatica che loro hanno in gran parte contribuito e per la quale non mostrano una gran voglia di rimediare.

Da tempo si parla – e non bene – di una mostra allo Science Museum di Londra intitolata Our Future Planet, sulle soluzioni all’emergenza clima. Il problema? La sponsorizzazione da parte di Shell. Ora Culture Unstained e Channel 4 hanno scoperto degli interessanti retroscena sulla faccenda e sulle clausole imposte per la sponsorizzazione. In cambio del finanziamento, lo Science Museum si è impegnato a non fare nessuna affermazione o dichiarazione o essere coinvolto in nessuna condotta che potesse essere ragionevolmente vista come «causa di discredito o danneggiamento alla buona volontà o alla reputazione dello sponsor». In pratica, parlare di clima senza mai menzionare le responsabilità passate, presenti e future di Shell.

È inevitabile chiedersi che informazione possa dare una mostra del genere al visitatore e come si possa raccontare il futuro del pianeta – come da titolo – a queste condizioni. L’ecologa Emma Sayer, che ha lavorato alla mostra, ha chiesto che il suo nome fosse rimosso dai crediti, spiegando di essere molto delusa dalla sponsorizzazione e imbarazzata di essere stata coinvolta in una cosa del genere. Il museo ha dichiarato che «le compagnie energetiche devono giocare un grande ruolo, tagliare i rapporti con loro sarebbe improduttivo». Per loro senz’altro. Shell invece ha dichiarato: «Rispettiamo l’indipendenza del museo. Il dibattito e la discussione sono essenziali». Sarà. Il punto è dibattito a quali condizioni, intorno a quali fatti, sulla base di quale punto di vista.

Un rapporto che farà la storia

Il 9 agosto sarà una data importante. L’Ipcc, il più importante organismo globale sui cambiamenti climatici, pubblicherà un nuovo rapporto, il più importante e articolato dal 2013. «Sarà una wake up call», ha scritto la Bbc in base alle indiscrezioni circolate, in particolare sarà importante leggere le 40 pagine di riassunto esecutivo per i policymaker, pagine che avranno un ruolo importante per i leader che si riuniranno a Glasgow a novembre per la Cop26.

Il rapporto sarà la Bibbia scientifica intorno alla quale si articolerà ogni conversazione e trattativa, conterrà l’elenco dei problemi per i quali i leader globali saranno chiamati a portare delle soluzioni. Le ultime discussioni prima della pubblicazione sono proprio con i rappresentanti di quasi 200 paesi per limare e mettere a punto questa parte del rapporto.

L’accordo di Parigi era stato in qualche modo plasmato e guidato dalla sintesi dell’Ipcc (che non produce scienza originale ma fa revisione e aggregazione di pubblicazioni già uscite), allo stesso modo questo nuovo rapporto sarà decisivo per i risultati e il successo della Cop26. È insomma un passaggio decisivo nell’anno decisivo per il clima, in un’estate nella quale le previsioni più fosche delle precedenti precedenti uscite Ipcc hanno alla fine iniziato ad avverarsi.

Tigri e trappole

Il 29 luglio è stata la giornata mondiale delle tigri, quindi intanto auguri in ritardo a chiunque ami questi splendidi animali. Come va con le tigri, dunque? Così così. Cambogia, Laos e Vietnam: sono i paesi asiatici nei quali – secondo il Wwf – le tigri si sono già estinte. Malesia, Myanmar e Thailandia: sono paesi in cui i numeri sono crollati. Perché? Perdita di habitat dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, disboscamento, espansione dell’agricoltura e commercio illegale (nel mondo ci sono molte più tigri in cattività che tigri libere, come sa chi ha visto Tiger King o letto le inchieste di Rudi Bressa).

Tigers (Panthera tigris) at Pench Tiger Reserve, India.

E poi ci sono i lacci: in Sudest asiatico ci sono 12 milioni di trappole anti-tigre a forma di laccio di metallo, schierate contro 3.900 tigri selvatiche, le ultime rimaste sulla Terra. Un’enormità.

Però ci sono anche storie positive, anche nei paesi più a rischio. Nel complesso forestale di Belum Temengor in Malesia, i risultati migliori li hanno ottenuti le pattuglie anti-bracconaggio guidate da membri della comunità indigena: sono riusciti a eliminare il 94 per cento delle trappole. L’ennesima prova di quanto il coinvolgimento delle comunità indigene sia la migliore strategia di protezione della biodiversità che abbiamo. In Thailandia stanno costruendo una serie di corridoi ecologici tra le aree protette che stanno avendo un effetto positivo contro la frammentazione dell’habitat.


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Ferdinando

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