Flash back al novembre 2021: la COP26, ventiseiesima conferenza delle parti dell'Onu sui cambiamenti climatici, era iniziata a Glasgow da un giorno appena, quando venne annunciato un grande accordo globale per azzerare la deforestazione al 2030. Partecipavano più di 100 paesi, c'era anche il Brasile dell'allora presidente Jair Bolsonaro, i firmatari rappresentavano l'85 per cento della superficie forestale della Terra.

Era un’intesa raggiunta fuori dal processo ufficiale dell'Onu e c'erano, quel giorno, due modi per leggere questa storia: innovazione o marketing politico.

Da un lato, il Regno Unito - paese organizzatore e guida del negoziato - sembrava voler forzare tempi e modi di un percorso che va avanti da quasi trent'anni e che tra i suoi pregi non ha sicuramente la rapidità o la flessibilità. Questi accordi a margine (come il Boga, Beyond Oil and Gas Alliance) erano una forma di pensiero politico laterale. Dall'altro a molti questa strada era sembrata più legata all'apparenza che alla sostanza, in grado di produrre solo un accordo senza vincoli, sul quale solo il tempo avrebbe giudicato. Una forma di greenwashing politico.

Ora stanno arrivando i dati su come sono andate le foreste nel primo anno dopo quell'accordo e sembrano dare ragione a chi accusava il governo britannico di aver voluto questi trattatelli a margine del processo Onu solo per coprire la propria difficoltà a guidarlo.

Deforestazione

La deforestazione nel 2022 non solo non ha iniziato a rallentare, ma è addirittura aumentata, l'anno scorso sono spariti globalmente quattro milioni di ettari di foreste per mano umana. L’obiettivo finale di quell’accordo è al 2030, ma non c'è nessuna curva di riduzione che possa far sperare di arrivarci come promesso nel 2021.

Nel frattempo in Regno Unito sono già cambiati due premier, Boris Johnson si dedica ad altro ed è difficile che l'Amazzonia occupi una grande porzione dei suoi pensieri, c'è stata un'altra COP dai risultati incerti e la ventottesima, quella di Dubai a fine anno, non invita all'ottimismo. Questa storia sull'accordo contro la deforestazione, presto rimosso, è la prova che sui tempi lunghi del clima e della biodiversità il concetto di responsabilità politica come lo conosciamo è difficile da applicare. Il precedente accordo più vistoso, quello del 2014, era già fallito senza appello. Per arrivare a zero deforestazione nel 2030, perdiamo ancora un milione di ettari l'anno di troppo, ci dicono i dati di Global Forest Watch.

Nel 2022 ci sono state però anche delle note di speranza: la prima è il cambio di potere in Brasile, dai tagli a raso di Bolsonaro alla responsabilità in mano ai popoli indigeni di Lula è ragionevole aspettarsi che in Amazzonia i dati migliorino. E poi c'è l'Indonesia, ottavo paese forestale al mondo, dove dal 2016 la distruzione non ha fatto che rallentare, anche grazie alle nuove regole sull'olio di palma, per anni una bandiera dell'ambientalismo.

Il 2022 è stato un anno terribile per foreste del mondo, sparite al ritmo dell'equivalente di undici campi da calcio al minuto, soprattutto nei paesi tropicali, dove la distruzione è cresciuta del 10 per cento rispetto all'accordo del 2021. In cima alla classifica c'è, come sempre negli ultimi anni, il Brasile, dove nel 2022 si è perso il 14 per cento delle foreste più rispetto all'anno precedente, anche per la corsa agli ultimi spazi e alle ultime opportunità di arraffare terra prima delle elezioni d'autunno. In Amazzonia i numeri dei tagli e degli incendi sono raddoppiati negli ultimi tre anni. La principale causa di perdita di copertura forestale è la ricerca di spazio e risorse per alcune delle risorse base del commercio mondiale: soia, gomma, carne, pelle, cacao.

È significativo il caso del Ghana, paese relativamente piccolo, dove c'è stato l'incremento maggiore di deforestazione nel corso del 2022 (addirittura +71 per cento), guidato principalmente dall'industria del cacao. Anche in Bolivia si è visto un picco (numeri cresciuti di un terzo), guidato principalmente dall'espansione della coltivazione di soia: un milione di ettari persi negli ultimi vent'anni. In totale, è come se avessimo aggiunto alla crisi climatica le emissioni di un grande paese come l'India.

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