- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter ambientale di Domani.
- Questa settimana parliamo del significato scientifico e climatico della cupola di calore in Canada, ma anche del suo impatto emotivo. Poi dello champagne russo e di come il clima cambia la mappa globale del vino, e di come sta andando Biden con la sua legge per le infrastrutture.
-
Per iscrivervi gratuitamente alla newsletter Areale, in arrivo ogni sabato mattina, potete cliccare qui.
Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, vi do il benvenuto a un nuovo numero di Areale, la newsletter che racconta ogni settimana la complicata missione di rimandare, attenuare, se possibile anche evitare il collasso della vita umana sulla Terra. Torniamo a Lytton, in Canada, e parliamo delle implicazioni scientifiche ed emotive di quello che è successo. Poi in Russia, per discutere di champagne sovietico e mappa globale del vino, nel senato americano, per vedere come sta andando Biden con la legge sulle infrastrutture. (Iscriviti qui, è gratis).
Cominciamo!
Una settimana sorprendente
Una settimana dopo la cupola di calore che ha intrappolato per giorni il nordovest americano portandolo all’ebollizione, è il momento in cui si elaborano i dati e si fanno i conti su e con un evento straordinario, che riscrive le statistiche e il nostro immaginario. Lytton, la cittadina canadese dei record di temperatura spazzata via da un incendio, è diventata il ground zero del riscaldamento globale. Il termometro vicinissimo ai 50°C in British Columbia ha spostato l’asse della conversazione, ha messo in prospettiva le cose, proprio mentre negli Stati Uniti si discute faticosamente la legge clima / infrastrutture (ne parliamo sotto) e a Venezia si riunisce il G20 dei ministri delle Finanze, un evento che avrà un forte impatto anche sulle politiche climatiche. Se volete leggere un’approfondita analisi del think tank Ecco su perché il successo di Cop26 passa anche dalla laguna, andate qui.
Ma torniamo al caldo.
Dunque. I climatologi del World Weather Attribution hanno analizzato i dati e sono arrivate le prime conclusioni, la cornice scientifica per trovare senso e prospettiva alla cupola di calore. È stato un aggregarsi di circostanze o è il futuro al quale dobbiamo prepararci? Responso: è ovviamente il futuro e lo abbiamo causato noi.
«Virtualmente impossibile senza un cambiamento indotto dagli esseri umani» è la conclusione del gruppo di scienziati. Un’ondata di calore come quella che hanno sperimentato statunitensi e canadesi si dovrebbe verificare una volta ogni mille anni. Su una Terra più calda di 2°C si può verificare una volta ogni cinque. A quanto siamo? Circa 1.2°C. Il riscaldamento indotto dalle attività umane aumenta le probabilità di eventi del genere di 150 volte.
Come dicevamo nello scorso numero di Areale, è come riempire il dado di facce col 6. Giugno 2021 è stato il più caldo di sempre da quando teniamo traccia delle temperature. Non è nemmeno solo una questione nordamericana, è stato un giugno mai visto anche in Scandinavia e in Nuova Zelanda. Il resto sono immagini sinistre, come il miliardo di animali marini morti sulla costa canadese, praticamente lessati dalle alte temperature per più giorni di fila. «La riva non dovrebbe scricchiolare, quando ci cammini», ha detto Christopher Harley, biologo della University of British Columbia, «Era impossibile non mettere piede su animali morti in questi giorni».
Il corridoio della paura
Queste sono settimane che incoraggiano l’enfasi. Veniamo da giorni di doomscrolling climatico, consultazione compulsiva di notizie in odore di apocalisse, con impaginazione e colori da fine del mondo, dettagli terribili (sta tornando di moda uno studio del 2017 intitolato: 27 modi con cui un’ondata di calore può ucciderti) e un gran numero di mappe con il rosso scuro come colore prevalente. Si ripropone la questione mai risolta (e forse mai nemmeno bene affrontata) dell’efficacia di una comunicazione sulla crisi climatica basata sulla paura. Serve? È utile? O fa solo danni?
I dati sono preoccupanti e oggettivi, sarebbe assurdo non avere paura. Ma questo uso sistematico dell’angoscia rischia di scavare una faglia tra chi si preoccupa moltissimo e chi sceglie di non farlo, per ignoranza, distrazione o come misura spicciola di sopravvivenza. Sono dati precedenti a questa estate, ma sono comunque interessanti: nel Canada colpito dall’heat dome l’83 per cento delle persone ritiene che i cambiamenti climatici siano reali, ma solo il 43 per cento pensa che saranno un problema che li riguarderà personalmente.
È di questi giorni un sondaggio dell’Eurobarometro che offre un’immagine singolare: il 78 per cento degli italiani pensa che il clima sia un problema molto serio, ma solo il 28 per cento ritiene di essere personalmente responsabile della lotta ai cambiamenti climatici e ancora meno (il 7 per cento addirittura) che questi siano il principale problema della Terra. Tradotto: un fatto terribile, ma remoto.
Come scrive Fabio Deotto in L’altro mondo, «Quando leggiamo dati e proiezioni sul riscaldamento globale, è la parte razionale ad attivarsi, mentre quella emotiva rimane sostanzialmente indifferente». E ancora: «Di fronte a decisioni che presuppongono un cambiamento, l’essere umano ha la tendenza a non agire. Siamo abituati a dare per scontato che la situazione in cui ci troviamo, che si tratti di un fisico in salute o di un ecosistema adatto alla nostra sopravvivenza, rimarrà tale a prescindere dal nostro comportamento». I nostri cervelli sono inadatti ad affrontare questa minaccia, perché il cambiamento climatico non risponde a nessuna delle caratteristiche che ci fanno attivare, racchiuse nell’acronimo PAIN, formulato dallo psicologo americano David Gilbert: Personal, Abrupt, Immoral, Now. Non ci sembra imminente e non ci sembra personale.
In questa collisione tra un disastro in slow motion e una struttura mentale inadatta a farci i conti, i record così perdono di significato, è come se ci adattassimo a una fine del mondo a bassa intensità, l’apocalisse diventa un rumore bianco. La desensibilizzazione è un effetto collaterale dell’angoscia, è quello che è successo in lunghe fasi della pandemia, quando anche un centinaio di morti al giorno sembravano ormai qualcosa di tollerabile. È sempre meno facile raccontare la crisi climatica senza tradirne la scala, ma anche mostrandola come una storia presente, vicina, personale, e soprattutto come una vicenda che può andare a finire bene, per la quale ha senso mobilitarsi.
Perché è una cosa che dobbiamo ricordarci: siamo in tempo per correggere, attenuare, salvarci. Purtroppo un discorso sulle soluzioni è sempre più difficile di uno sui problemi, soprattutto perché qui – a differenza del Covid – non c’è il proiettile d’argento dei vaccini. Nella crisi climatica le soluzioni sembrano sempre piccole, velleitarie, deboli o frutto di greenwashing. Molte lo sono, volontarismo iperlocale o manipolazione industriale, ma non tutte, non sempre, altrimenti avrebbero ragione gli inattivisti raccontati da Michael E. Mann (anche ai nostri compagni di viaggio di Destinazione Cop su Domani) a dire che è meglio aspettare il collasso senza muovere un dito.
Il clima è un compito globale, ma anche una faccenda individuale. Non può essere sempre delegato. Il racconto dell’emergenza deve creare un contesto in cui siamo consapevoli che le azioni hanno degli effetti, positivi o negativi: consumi, stili di vita, partecipazione politica, distrazione o mobilitazione, l’atto di votare per qualcuno o qualcun altro. Se si perde questo legame, sono solo numeri e colori su una mappa, astrazioni e rumore.
La mappa globale dello champagne
Una delle storia della settimana è che per decreto in Russia l’unico prodotto che si potrà chiamare champagne è lo shampanskoye prodotto in Crimea, mentre ogni altro vino frizzante, compreso lo champagne prodotto in Champagne, dovrà trovarsi un altro nome. È una guerra commerciale, ma è anche una storia di riposizionamento climatico, la crisi ecologica sta cambiando il mercato del vino e sta aprendo nuove prospettive agricole alla Russia, lo champagne del Mar Nero è un tassello che ha senso vedere anche in un disegno più grande.
Prima però è interessante la storia dello shampanskoye in sé, lo champagne del popolo, una carta antica e nostalgica che Putin ha deciso di rimettere in gioco, per galvanizzare e umiliare.
La sua produzione risale al 1936 e allo sforzo di Stalin di creare un’industria autarchica del vino, che offrisse ai cittadini sovietici il più elitario dei prodotti europei. La soluzione tecnica la trovò Anton Frolov-Bagreyev, che trasformò il lungo processo di fermentazione francese in una tecnologia in grado di produrre lotti da 10mila litri in un colpo solo all’interno di vasche giganti. Nessuna sottigliezza enologica, insomma. L’obiettivo irrealistico era di arrivare a dodici milioni di bottiglie all’anno, non fu mai raggiunto, ma il sapore dolciastro del sovetskoye shampanskoye entrò nelle abitudini di vita del dopoguerra in Urss, era la «Coca Cola sovietica» e il drink per celebrare le occasioni importanti. Una bevanda di propaganda.
Dall’annessione della Crimea nel 2014 in poi, in Russia c’è stato un revival dello champagne sovietico, per orgoglio nazionalistico e per ridare fiato all’economia della Crimea dopo le sanzioni. Una buona bottiglia di Zolotaya Balka, il principale champagne della Crimea, può costare dieci euro, c’è l’obiettivo dichiarato di aumentarne la produzione del 20 per cento entro il 2025, lo shampanskoye sarà sicuramente avvantaggiato dalla decisione di penalizzare lo champagne vero francese. Che poi, vero in che senso? A quale latitudine?
La crisi climatica e l’aumento delle temperature stanno ridisegnando la mappa globale del vino, con la latitudine della vinificazione che si sposta da anni verso nord, offrendo prospettive preoccupanti ai produttori storici (come la Francia) e promettenti a quelli nuovi (come la Russia). Lo champagne francese deve già affrontare la concorrenza di quello britannico: lo Smithsonian Magazine ha raccontato di una prova alla cieca di degustatori professionisti che, bendati, hanno creduto che lo champagne inglese fosse francese. Il suolo britannico è per certi versi identico a quello in Champagne, quello che mancavano erano le temperature giuste. E qui entra in gioco il cambiamento climatico. «I produttori di vino stanno diventando dei climatologi, nello sforzo di adattarsi, prevedere, prevenire», scrive lo Smithsonian Magazine. Nella regione della Champagne le temperature sono aumentate di 1.1°C, che fanno una certa differenza quando si tratta di produrre vini di eccellenza. Lo scorso anno un produttore da premio come Drappier ha perso il 23 per cento della produzione per la gelata di primavera e il caldo d’estate. La qualità per ora tiene, anzi, in alcuni casi il caldo e i raccolti precoci l’hanno migliorata, ma la curva delle temperature è preoccupante in Francia e ha spalancato la concorrenza.
Lo stesso aumento di temperature ha reso regioni come Kent, Sussex, Dorset perfette per lo champagne, generando una fiorente industria locale. Mancano secoli di competenza e conoscenza, ma il cambiamento climatico ha innestato il cambiamento vinicolo. Gli stessi produttori francesi hanno iniziato a investire in vigne nel Regno Unito. È una tendenza che riguarda tutti i vini. Lo stesso Fabio Deotto, nel suo libro, racconta preoccupazioni simili in Franciacorta, mentre arrivano sui mercati globali le bottiglie di rosso e rosé scozzesi, svedesi, russe, danesi, belghe, canadesi.
Il vigneto commerciale più settentrionale al mondo è oggi quello di Lerkekåsa, in Norvegia, alla stessa latitudine dell’Alaska, dove si coltivano due varietà, una importata dalla Russia e una dalla Germania. Vino di un mondo che cambia, al quale si attrezza anche la Russia di Putin. Non solo con la piccola mossa tattica di penalizzare lo champagne francese. Enormi regioni orientali e settentrionali della Russia stanno diventando coltivabili, con foreste, paludi e steppe che ora sono campi ordinati di soia, mais e frumento. Da un lato, sul Mar Nero si fanno vini dall’antichità, dall’altro la Russia da settentrione vede i cambiamenti climatici in modo diverso, la mossa sullo champagne è il segnale di qualcosa di molto più grande.
Il momento di Biden
L’azione ambientale di Biden si trova di fronte a una strettoia delicata. Una grande parte della transizione ecologica prevista nel suo mandato da presidente è contenuta nella legge sulle infrastrutture, per la quale è stato da poco trovato un accordo bipartisan al senato. Si sapeva che il piano annunciato con enfasi in primavera sarebbe dovuto passare per la complicata situazione al senato prima di diventare realtà. Era chiaro anche che Biden non avrebbe tradito la sua identità di maestro del dialogo con gli avversari e che quindi avrebbe preferito un accordo con i più moderati tra i Repubblicani a una forzatura procedurale per far passare il suo piano.
L’accordo è arrivato, come ogni compromesso è una versione ridotta delle proposte originarie, per risorse, portata, ambizione. Il contesto non ha aiutato il presidente. C’è stata l’ondata di calore, che ha reso più rumoroso l’orologio della crisi climatica e meno spendibili vie moderate e soluzioni bipartisan. Ma c’è stata soprattutto un’inchiesta di Unearthed, il braccio giornalistico di Greenpeace, che ha mostrato quanto a fondo siano andate le attività di lobby di Exxon, anche in questa amministrazione, e quanto abbiano provato a influenzare la legge su infrastrutture e clima.
Non sappiamo quanto l’attività di Exxon sia stata decisiva nell’attenuare l’ambizione del piano di Biden, ma ci sono due cose importanti. La prima è che il compromesso trovato al Congresso è più vicino alla visione di Exxon della proposta originaria. La seconda è che quattro membri della commissione bipartisan che ha lavorato all’accordo sono stati esplicitamente citati nel video di Greenpeace come contatti sui quali Exxon ha avuto modo di far sentire la sua influenza. Biden si è tenuto defilato sul tema ambiente, perché le circostanze politiche sono diventate più scomode. Nelle sue uscite pubbliche, ha parlato soprattutto di ponti da ristrutturare e banda larga nelle aree rurali, mentre l’ampio respiro sul futuro ecologico dell’America sembra rimasto fermo al summit per l’Earth Day.
La strategia politica di Biden era stata proporre un piano per le infrastrutture che fosse un’agenda climatica senza però portarne esplicitamente il marchio e il peso, per sminare il conflitto. il problema è che oggi – dopo le trattative al Congresso – quei contenuti di azione climatica sono più deboli: i fondi per la mobilità elettrica sono un decimo di quelli previsti, quelli per i trasporti pubblici la metà. Rimangono alcuni sforzi importanti, come i 55 miliardi di dollari per migliorare le forniture idriche e i 47 miliardi di adattamento climatico per le aree più esposte (soprattutto quelle costiere a est e sud).
Viene meno l’ambizione di rendere la produzione di elettricità interamente carbon free entro il 2035, cadono gli incentivi per solare ed eolico, sono stati messi in secondo piano la giustizia climatica, i Civilian climate corps ispirati dal New Deal di Roosevelt e l’ammodernamento energetico degli edifici.
L’idea è di salvare questa parte dell’azione climatica dell’amministrazione in una seconda legge sulle infrastrutture, non bipartisan e sostenuta solo dai Democratici, contando sulla risicata maggioranza al senato (per la quale serve il voto della vice-presidente Kamala Harris) attraverso la procedura della reconciliation. Sembra una prospettiva lontana, quello che rimane è una legge bipartisan che dalla primavera all’estate ha perso parte di risorse e carica propulsiva.
Siamo arrivati alla fine.
Il libro di Fabio Deotto, L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia, è pubblicato da Bompiani Overlook ed è un gran viaggio per spalancare prospettive sul presente e sul futuro.
Chi ha letto I bugiardi del clima di Stella Levantesi (Laterza) aveva già tutti gli strumenti per capire le tattiche messe in gioco da Exxon e svelate da Greenpeace. Se non lo avete ancora fatto, leggetelo.
Io ho pubblicato una nuova puntata del podcast Ecotoni, che parla di patrimonio forestale in Italia, insieme a Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano. Si intitola Fuoco e parla di incendi, soprattutto di cosa stiamo sbagliando nell’affrontarli in Italia: siamo diventati fortissimi a spegnerli, ma deboli a prevenirli.
È tutto, se avete messaggi di speranza, critiche, osservazioni, se volete raccontarmi come state vivendo emotivamente questo periodo di intensa crisi climatica, o se avete ricette di cocktail con lo champagne sovietico, scrivetemi, leggo tutto, rispondo a tutte e tutti.
Qui per una comunicazione istituzionale con Domani: lettori@editorialedomani.it
Qui per una comunicazione personale con me: ferdinando.cotugno@gmail.com
A presto
© Riproduzione riservata