- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter di Domani sull’ambiente.
- Questa settimana parliamo di aironi, del più grande mercato per le emissioni al mondo, di una legge clima che non c’è, di turismo spaziale.
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Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter sull’ambiente. Questa settimana si è parlato molto di un’intervista catastrofista di Jonathan Franzen per La Stampa. Una delle cose più strane dette da Franzen a Paolo Mastrolilli è: «Gli uomini dovrebbero ritirarsi in aree urbane densamente popolate e difese da fenomeni estremi, lasciando che la natura segua il suo corso nel resto del pianeta». È un’idea bizzarra a diversi livelli, uno di questi è che spazi urbani e biodiversità sono molto più legati e mescolati di come la vede lui. Anche le città sono ecosistemi naturali. Un bel lavoro che ce lo ricorda è quello della fotografa Julie Hrudová sulla nutrita colonia di aironi che vivono nella città di Amsterdam, decisamente cresciuta negli ultimi anni e diffusa in quasi ogni quartiere della città. (Iscriviti qui, è gratis).
Quali parole per una cosa così grande?
Oggi è il 24 luglio e sono passate quattro settimane da quella cupola di calore che si è fermata sul Canada occidentale. Questo mese di luglio, con un montaggio serrato di immagini dei Tg da tutto il mondo, potrebbe essere l’inizio di un brutto film apocalittico, una calma apparente e poi le cose cominciano a succedere, tutte insieme. Gli ultimi fotogrammi vengono dalla città di Zhengzhou, in Cina, dieci milioni di abitanti sulla riva del Fiume Giallo (ne parliamo sotto). La cronaca di queste settimane ha lasciato poco margine alle riflessioni, ma in quel margine si è discusso anche di come raccontare questi eventi, quale sia la cornice corretta, il tono ragionevole: c’è stato il cupissimo intervento di Franzen, c’è stato un costruttivo ragionamento di Fabio Deotto e Stella Levantesi su Il Tascabile, a me è venuto in mente anche un libro dello scrittore islandese Andri Snær Magnason. Si intitola Il tempo e l’acqua, in Italia lo ha pubblicato nel 2020 Iperborea.
«Se le previsioni degli scienziati si rivelano esatte sul futuro degli oceani, dell’atmosfera e del clima, dei ghiacciai e degli ecosistemi delle coste di tutto il mondo, dobbiamo chiederci quali parole potranno contenere questioni di tale portata. Quale ideologia può includerle? Che cosa dovrò leggere?».
La memoria familiare è un buon orizzonte della crisi climatica. Magnason pensa alla sua famiglia, i suoi zii, i suoi nonni, i suoi figli, i nipoti che avrà, le persone che c’erano prima e quelle che c’erano dopo. È matematica elementare, antidoto a quella estremamente codificata dalla scienza climatica. Così elementare che Magnason fa un gioco con sua figlia: quanto è vecchia la tua bisnonna? È nata nel 1924, ha 94 anni, risponde lei. «E tu quando avrai 94 anni?», chiede alla figlia. Nel 2102, e fa già tremare così.
«Magari vivrai nella stessa casa, verrà tua nipote, avrà dieci anni come te, parlerete nella stessa cucina dove siamo noi», dice il papà. «E lei? Quando avrà 94 anni, che anno sarà?» Il 2186. La bambina ride e il padre le dice: immagina, tu che sei nata nel 2008 conoscerai una bambina che potrà essere ancora viva nell’anno 2186. Ora posso andare?, chiede lei. Un ultimo calcolo, le chiede il padre: quanto tempo sarà passato dal 1924 della tua bisnonna al 2186 di tua nipote? Lei fa l’ultimo calcolo: 262 anni. È la lunghezza di tempo nel quale è ragionevole pensare che si estenda davvero la nostra vita, l’arco coperto dalla persone che abbiamo conosciuto e dalle personoe che conosceremo. Il tuo tempo, il tempo che ti plasma, quello al quale puoi dare forma, quello nel quale succedono le cose che ti riguardano. Con le tue mani puoi toccare più di 200 anni. Puoi avere un impatto diretto sul futuro fino all’anno 2186.
È quello che in inglese si chiama The Great Span, il tempo che va dall’anno di nascita della persona più anziana che abbiamo conosciuto a quello dell’ultima che nascerà nell’arco della nostra vita. È la prospettiva temporale del nostro impatto, quella che dovremmo avere nella cornice di ogni nostra azione, decisione, rallentamento, spreco ed errore.
Turismo cosmico, una sola Terra
Theodore von Kármán è stato uno dei grandi teorici dell’aerodinamica del Novecento, porta il suo nome la linea che separa il confine tra la nostra atmosfera e lo spazio, viene posta per convenzione (una convenzione molto discussa peraltro, ma è una storia lunga) a 100 km sopra il livello del mare. È la linea tra aeronautica e astronautica, sopra la quale si diventa per l’appunto astronauti, si può dire di essere usciti dalla Terra e di aver visitato il cosmo. È il traguardo più ambito del momento per gli ultra miliardari, la Kármán Line è diventata l’ultimo totem del capitalismo, l’ultimo a superarla è stato Jeff Bezos, fondatore di Amazon, con la sua navicella Blue Origin, che in dieci minuti molto intensi ha raggiunto quota 120 km.
Quelle di Richard Branson, Jeff Bezos ed Elon Musk sono più di complesse e costose azioni dimostrative, legate più all’affermazione personale (e relative nevrosi), la prospettiva vera è leggermente più ampia: creare una nuova industria del turismo, che si muova verso la frontiera che porta il nome di Theodore von Kármán (stabilita in suo onore dalla Fédération Aéronautique Internationale).
Ed è qui che si solleva una domanda ecologica: che impatto può avere il turismo spaziale come prodotto di lusso per ultra-ricchi? Al momento nessuno, i circa cento lanci all’anno fatti finora hanno avuto un effetto irrilevante sul riscaldamento globale, se paragonati al traffico dell’aviazione civile. Ma Virgin Galactic ha già annunciato un business plan da 400 lanci all’anno, Space X di Elon Musk, che non ha ancora rivelato i piani a lungo termine, vuole offrire soggiorni suborbitali da quattro o cinque giorni.
Le tre aziende usano fonti di energie diverse: Blue Origin va a idrogeno e ossigeno liquido, quindi senza emissioni di CO2. Virgin Galactic e SpaceX Falcon usano motori a combustione, con elevate emissioni, nel caso di Branson un propellente ibrido, in quello di Musk cherosene liquido. La maggior parte del propellente viene rilasciata nella stratosfera e nella mesosfera, tra 12 e 85 chilometri sopra il livello del mare, dove la persistenza è più lunga. I gas e le particelle emesse durante i viaggi (e il calore al suolo, che al momento del lancio supera di dieci volte quello di una grande centrale a gas) hanno effetti nocivi su atmosfera, nuvole e clima. Se è un giocattolo per pochi, non succede nulla. Se quel giocattolo diventa traffico, abbiamo un altro problema.
La questione ecologica è rimasta sullo sfondo, perché la scala dell’industria attualmente la rende irrilevante, lo sarà molto meno quando il turismo spaziale sarà diventato – come prevede un recente report – un business da 2.5 miliardi di dollari. I timori per tutti e tre i mezzi privati (anche per quello a zero emissioni di Bezos) vanno oltre il riscaldamento dell’atmosfera e riguardano principalmente lo strato di ozono, quello che nella stratosfera ci protegge dalle radiazioni ultraviolette: c’è preoccupazione per l’impatto che può avere sull’ozono un traffico annuale da migliaia di veicoli verso lo spazio. Il problema è che il settore è un sistema ancora senza regole di impatto ambientale o sui carburanti, Eloise Marais, che studia l’impatto dei carburanti nell’atmosfera allo University College di Londra, ha spiegato al Guardian che il momento per mettere delle regole è ora, «quando i miliardari stanno ancora comprando i biglietti».
La legge clima che non c’è
Avete mai letto la legge italiana sul clima?
Non vi siete persi qualcosa, perché l’Italia non ha una legge quadro sul clima e forse è giunto il momento di averne una, sul modello di quelle che sono in vigore o in discussione in ogni grande paese europeo tranne il nostro. Per prima arrivò il Regno Unito, in Francia la Loi climat è oggetto di un dibattito popolare estremamente acceso (anche per il coinvolgimento di un’assemblea di cittadini estratti a sorte), in Germania è stata addirittura cambiata dopo una causa climatica portata avanti da una serie di organizzazioni e cittadini.
In Italia non è successo niente di tutto questo, perché una legge unitaria da dibattere, discutere e migliorare non c’è proprio, la governance è disaggregata e a tratti disfunzionale (nonostante l’accentramento al ministero per la Transizione ecologica) e il tema della crisi climatica entra nel dibattito pubblico solo per le catastrofi lontane e in quello politico solo per contestare gli obiettivi europei, considerati troppo ambiziosi e nemici dell’industria italiana (vedi i casi bioplastica o effetti del pacchetto Green Deal sull’automotive di lusso).
La proposta di dotarci di una legge quadro sul clima arriva dal fronte unitario dell’ambientalismo italiano (Wwf, Legambiente, Greenpeace, Kyoto Club, Transport and Environment), che ha avanzato pubblicamente la richiesta al governo e al parlamento. Al momento i nostri impegni climatici derivano per delega: l’accordo di Parigi, i relativi Ndc (nationally determined contribution), il Green Deal e la legge europea sul clima. L’unico testo nazionale, il Piano nazionale energia e clima, è vecchio, è di fatto stato superato dagli eventi e deve essere ancora rivisto alla luce dei nuovi obiettivi europei: tutto fa pensare che ci presenteremo da paese co-organizzatore alla Cop26 di Glasgow con un piano fuori corso che non siamo riusciti ad aggiornare.
Nella proposta degli ambientalisti, la legge quadro sul clima ci permetterebbe di dotarci di un budget nazionale delle emissioni di carbonio diviso per settore, da aggiornare ogni tre anni, e di un Comitato tecnico scientifico per indirizzare il dibattito pubblico e coordinare le decisioni della politica con la conoscenza scientifica, sul modello di quello che ha tenuto insieme e razionalizzato il comportamento italiano durante la pandemia.
Il ragionamento che c’è dietro l’idea di una legge quadro è: se il clima è un’emergenza, va trattato come un’emergenza, non come ordinaria amministrazione della politica. In Italia questa idea non sembra essere filtrata nell’azione di questo o dei passati governi, l’ecologia viene affrontata come uno scomodo impegno internazionale più che come una crisi esistenziale. Un esempio su tutti è il Piano di adattamento climatico, che da noi è stato scritto ma è rimasto fermo in cassetto senza completare il suo iter e diventare un riferimento per le varie amministrazioni. Il disastro di Germania e Belgio dimostra quanto sia importante una strategia di monitoraggio e reazione, soprattutto in un territorio ancora più fragile di quello tedesco, sul quale (anche qui, in assenza sia di una strategia che di una legge) il consumo di suolo continua a procedere inesorabile, anche durante la pandemia, sottraendoci margine di adattamento.
Cose che succedono in Cina
In Cina la tavolozza della paura ha conquistato nuove possibilità: morire annegati in metropolitana. A Zhengzhou, nella provincia di Henan (tra Pechino e Shanghai, nella Cina centrale), sono caduti in un’ora 200mm di pioggia. L’ultimo bilancio è di 33 vittime (12 solo nella linea 5 della metropolitana) e 200mila sfollati, un disastro che ha danneggiato dighe, fatto crollare strade, causato l’esplosione di una fabbrica e allagato i tunnel sotterranei. La quantità di pioggia ha battuto ogni record noto nella regione ed è almeno il quarto evento da «una volta ogni mille anni» capitato questo mese. In Cina c’è stato un rimpallo di accuse sulla mancata chiusura dei trasporti, su allarmi che non sono partiti e previsioni del meteo sbagliate: il disastro Zhengzhou, come quello in Germania, dimostra che la preparazione climatica deve completamente cambiare di livello per cogliere la sfida. (E su questo Franzen ha ragione: stiamo sottovalutando l’adattamento).
In Cina è successa un’altra cosa importante: è partito il mercato locale delle emissioni, i permessi per emettere CO2, un meccanismo che esiste già in diversi paesi del mondo (e che l’Unione europea ha di recente deciso di rafforzare e allargare). Non ce n’era però uno in Cina, il più grande emettitore di gas serra al mondo, e quindi è una notizia storica, anche perché il mercato delle emissioni cinese diventa automaticamente più vasto al mondo. Nella sua forma attuale riguarda solo le centrali a carbone e a gas (non sono poche, una centrale a carbone sul due al mondo è in Cina) e funziona in modo diverso da quello europeo: non misura le emissioni di carbonio ma la loro intensità per unità di energia prodotta. Lo schema cinese inoltre è considerato ancora largo e permissivo: i massimali di emissioni sono alti, i prezzi per le emissioni sono bassi e le sanzioni per chi non rispetta lo schema sono leggere. Qual è l’obiettivo cinese? Raggiungere il picco delle emissioni nel 2030 e la neutralità nel 2060. Difficile che ci si arrivi così, ma è un passo.
Ci salutiamo con un altro airone di Amsterdam, anche per questa settimana è tutto, se avete critiche, suggerimenti, spunti, letture, foto di aironi, mandate un dispaccio.
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A presto,
Ferdinando Cotugno
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