- Questo è l’episodio 109 di Areale, la newsletter sul clima e l’ambiente di Domani a cura di Ferdinando Cotugno.
- Questa settimana parliamo della prima vittima dell’Antropocene, di nuovi preoccupanti dati sulla plastica, della frontiera spaziale per l’azione climatica e di una causa di giustizia climatica contro Shell.
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Thomas Fleischer viveva in Groenlandia ed è morto un giorno di dicembre del 1952, nello stretto di Sullorsuaq, sulla costa occidentale della grande isola di ghiaccio.
Lasciò questa terra trascinato via da un'onda anomala causata da una frana che né lui né i suoi compagni di pesca avrebbero mai potuto immaginare.
È una vecchia storia, di cui si trova traccia nei giornali della Groenlandia degli anni '50, non esattamente la stampa più letta del mondo, ma un geologo danese, Kristian Svennevig, ne ha sentito parlare mentre faceva ricerca su un episodio simile, avvenuto nel 2017, con quattro vittime.
Cercava precedenti e ne trovò uno identico settanta anni prima, come un cold case freddissimo. Di recente è uscito un paper che collega le due storie ed è interessante perché Thomas Fleischer, pescatore groenlandese di cui non sappiamo nulla, potrebbe essere la vittima accertata più antica della crisi climatica. Thomas, paziente zero dell'Antropocene. Così va la vita. Questo è il 109esimo episodio di Areale, iniziamo.
Space Oddities: clima e spazio
Diceva Ray Bradbury che l'idea di viaggiare nello spazio ci sollecita perché ci fa venire voglia di vivere per sempre, è un modo per rinnovare il nostro senso di meraviglia, ci fa tornare bambini. Insomma, lo spazio ci chiama anche perché è l'opposto della noia. E mi chiedo se ci sia anche un po' di noia nell’attuale, frenetica ricerca di risposte alla crisi climatica (che è un'azione sociale e meccanica, politica e cumulativa, lenta e invisibile) sopra la linea di Kármán, il confine della nostra atmosfera.
Insomma, c'è un fiorire di nuove soluzioni climatiche basate sullo spazio, cannoni che dovrebbero sparare polvere di Luna per oscurare il sole o distese di pannelli solari in orbita, montati su strutture cento volte più grandi della Stazione spaziale internazionale.
Queste wunderkammer turbospaziali sono progetti basati su ipotesi affascinanti, hanno qualcosa di letterario, sulla scala amorale delle Cronache marziane, visualizzazioni da copertine di libri Urania. Le vedremo realizzate? Difficile. Ma ci dicono qualcosa di interessante su di noi come genere umano, una specie capace di tutto e di niente.
La normalità del contrasto alla crisi climatica (il ciclo di rinnovabili, efficienza, risparmio, riduzione dei consumi energetici, evoluzione delle diete e dei modi di vivere e viaggiare) ci spaventa anche perché ci annoia, ci dobbiamo per forza sentire chiamati a cose più grandi, più enfatiche, più avventurose.
È legittimo, ma, insomma, è già difficile così, con le consuete complicazioni degli impervi scenari Net Zero dell'Agenzia internazionale dell'energia, senza trasformare tutto in moonshot, letterali o meno.
In ogni caso, è uscito su una rivista serissima (Plos) ed è stato ripreso da molta stampa internazionale attenta e seria sul clima (Washington Post, Guardian) uno studio che propone di sparare polvere lunare nello spazio con un gigantesco cannone elettromagnetico posizionato sulla superficie della Luna (o in orbita), allo scopo di ridurre la radiazione solare del 2 per cento (l'equivalente di sei giorni di sole oscurati all'anno) e quindi mitigare l'aumento delle emissioni e il riscaldamento globale.
C'è anche un'altra opzione, se questa sembra troppo improbabile: prendere la polvere dalla Luna ma spararla da un punto orbitale chiamato L1 Lagrange, lì dove gli oggetti in orbita ricevono spinte gravitazionali uguali dal sole e dalla Terra, dove l’attrazione di uno cancella l’attrazione dell'altro e si resta in equilibrio (c'è qualcosa di romantico in tutto questo? Certo che c'è).
Lo studio è fatto di calcoli e modellistica, e di ricercatori che devono essersi divertiti molto. In ogni caso mi vengono in mente almeno dieci film di fantascienza che iniziano esattamente in questo modo, e in nessuno di questi l'umanità migliora le proprie condizioni materiali di vita.
«Però non possiamo certo pensare di lasciar perdere il nostro obiettivo primario, ridurre le emissioni di gas serra qui, su questo pianeta», ha detto Ben Bromley, astrofisico e autore dello studio (grazie, Ben, per averlo detto).
Un altro scenario di azione cosmica per il clima viene da Caltech (California Institute of Technology) e parte da una domanda: e se i pannelli solari li mettessimo nello spazio? A differenza di quello che succede sulla Terra, in orbita la radiazione solare non sarebbe intermittente, i pannelli fotovoltaici spaziali ci offrirebbero una fornitura di energia continua, senza interruzioni.
È una prospettiva di cui si parla da tanto, ora sembra incoraggiata dalla privatizzazione dello spazio, che ha moltiplicato la concorrenza e fatto calare i costi dei lanci. Caltech, per conto della Solaris Initiative, ha costruito un prototipo che dovrebbe andare in orbita questo mese.
Il progetto Solaris (bel nome, comunque) è dell'ESA, la European Space Agency e potrebbe portare a una tecnologia pienamente sviluppata già nel 2025. Insomma, è qualcosa di più concreto dei cannoni di polvere lunare.
Anche la Cina sta lavorando a un prototipo, più grande di Solaris, già sulla scala dei megawatt, ma su un'orbita più vicina alla superficie della Terra.
Insomma, se ne discute, si fa ricerca, si costruiscono cose, si fanno esperimenti. Il problema è che le risorse, le dimensioni, le difficoltà, i costi di questa idea sono un incubo: nella vita si sconfigge prima la logica o la logistica? Servirebbero chilometri di pannelli solari in orbita. Per generare un gigawatt di potenza, cioè per raggiungere la scala commerciale, il parco fotovoltaico in orbita dovrebbe essere largo cento volte più della International Space Station (per costruire la quale c'è voluto un decennio).
I singoli pannelli sarebbero lunghi, nel piano di Caltech, 60 metri. Le celle solari devono essere in grado di reggere l'intensa radiazione nello spazio, quindi servono materiali più costosi di quelli che usiamo sulla Terra. E poi, una volta prodotta l'elettricità in orbita, come la mandiamo sulla Terra?
Le ipotesi sono: raggi laser (ma sarebbero bloccati dalle nuvole) o microonde, che potrebbero attraversare l'atmosfera senza perdere troppa energia. Il problema delle microonde è che si disperdono mentre viaggiano, quindi servirebbero delle stazioni riceventi lunghe chilometri e chilometri sulla Terra (quindi, problema sovrintendenze e Italia Nostra: non risolto). E infine i costi: i ricercatori riconoscono che il solare spaziale sarebbe più costoso di quello terrestre, ma potrebbe essere competitivo con l'energia nucleare (e questo ci dice soprattutto qualcosa sull'energia nucleare).
Il Washington Post ha ricordato anche altre idee spaziali che l'umanità ha valutato contro la crisi climatica: il parabrezza di vetro largo 2mila chilometri proposto dal Lawrence Livermore National Laboratory, da piazzare tra il sole e la Terra.
L'idea dell'astronomo Roger Angel di mandare piccole astronavi con scudi della forma di un ombrello, per schermare la radiazione solare. La ricerca scozzese di far esplodere un asteroide di passaggio per avere lo stesso effetto polvere di stelle del cannone lunare. E infine il piano del MIT con le bolle. Bellissima letteratura.
Chi ripulisce tutto il male?
È stata una settimana interessante per la giustizia climatica. Shell ha di recente annunciato i profitti più alti della sua storia: quasi 40 miliardi di dollari.
Nella stessa settimana, 11317 persone che vivono nella comunità di Ogale, Delta nel Niger, in Nigeria (insieme a 17 istituzioni locali) hanno citato in tribunale, presso l'Alta Corte del Regno Unito, il gigante energetico perché decenni di estrazioni petrolifere hanno distrutto la vita, l'economia e le comunità nell'area.
Hanno fatto causa perché vogliono che Shell pulisca i danni e vogliono anche robuste compensazioni. Il processo entrerà nel vivo l'anno prossimo, ci vuole tempo, ma la Corte Suprema del Regno Unito aveva giudicato il caso ammissibile (Shell è quotata in borsa a Londra, per questo il tribunale competente è lì).
Shell ha annunciato nel 2021 che lascerà il Delta del Niger dopo decenni di operazioni petrolifere, la causa serve a impedire che lo facciano senza ripagare nulla dei danni che hanno causato.
È una storia di risarcimenti, ma è soprattutto una storia di responsabilità, da Cop27 a Londra la domanda «Chi paga tutti questi danni?» sta dimostrando di essere passata a pieno titolo dalle strade e dai cartelli ai tribunali e alle istituzioni. Chi, come, cosa, quanto e quando si dovrà pagare è materia di dibattito, ma la domanda è legittima, politicamente e giuridicamente. Anzi, è una delle domande chiave del presente.
Il CEO di Shell, Wael Sawan, ha detto a CNBC: «La Nigeria è un contesto difficile. Tante delle perdite sono state causate da furti e sabotaggi, da terze parti, in zone dove noi non potevamo accedere per motivi di sicurezza». Se il Delta del Niger è annegato nel petrolio che noi estraevamo è colpa del Delta del Niger, non nostra, questa sarà la difesa di Shell.
Uno studio dell'ONU (Unep) ha stabilito che gli abitanti dell'area sono stati esposti a gravi contaminazioni su base quotidiana, che hanno impattato le risorse idriche, la qualità dell'aria e del suolo agricolo. L'Unep aveva chiesto la più grande operazione di pulizia terrestre della storia. Inutile dire che niente è stato pulito.
Le operazioni di Shell in Nigeria sono iniziate nel 1936, la prima estrazione è stata nel 1956, oggi, tramite la sua sussidiaria locale, produce il 40 per cento del petrolio estratto nella regione, dove ci sono 6mila chilometri di tubi e mille pozzi. In un altro processo un tribunale nigeriano deve valutare l'appello su una multa da 2 miliardi di dollari, sempre contro Shell, un caso analogo ma differente. Con la stessa domanda: chi pagherà?
Un fiume di plastica e uno stallo negoziale
Nonostante i negoziati internazionali e i bilanci di sostenibilità delle grandi aziende, il mondo continua a soffocare nella plastica. Il fiume di polimeri non fa che ingrossarsi, anno dopo anno, e il riciclo non riesce a tenere il passo o a operare su scala: solo una piccola percentuale di quella plastica diventerà materia prima secondaria.
Nessuna emergenza globale continua a procedere indisturbata e non governata come quella della plastica. Secondo il Plastic Waste Makers Index, pubblicato questa settimana dalla Minderoo Foundation, nel 2021 globalmente sono state prodotte 139 milioni di tonnellate di nuova plastica vergine fatta da combustibili fossili: sono 6 milioni in più rispetto alla precedente edizione del rapporto (2019), un chilo in più per ogni abitante della Terra, adulto vecchio o bambino che sia, per te e per me.
Si tratta di un aumento che, secondo i ricercatori, è dovuto principalmente alla fame di packaging e imballaggi. Di questi 139 milioni di tonnellate, solo il 2 per cento potrà essere riciclato. Il resto finirà bruciato o in discarica, e da lì negli ecosistemi e negli oceani.
La crescita della plastica vergine è 15 volte più veloce di quella della plastica riciclata. La plastica è l'anello di congiunzione delle crisi, è allo stesso tempo un problema ecologico di inquinamento su vasta scala e un problema climatico, la plastica è un bene rifugio per l'industria oil and gas.
Come spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace, «l'ultimo rapporto della Minderoo Foundation conferma ancora una volta quanto le crisi ambientali dell'inquinamento da plastica e dell'emergenza climatica siano due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili allo sfruttamento di idrocarburi come petrolio e gas fossile di cui le industrie dei combustibili fossili come Exxon, Shell e Eni sono i principali responsabili. Se la crescita della produzione di plastica continuerà saremo sempre più lontani dal raggiungimento dell'obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C».
I combustibili fossili stanno stravincendo questa partita e il Plastic Waste Makers Index ci ricorda ancora una volta come da questa crisi non possiamo sperare di uscirne riciclando.
«Le aziende petrolchimiche stanno espandendo la loro capacità di riciclo solo nei mercati dove le condizioni economiche sono più favorevoli, la domanda di sostenibilità dei consumatori è più alta e le legislazioni sono più progressive».
Insomma, nella minoranza del mondo, come l'Ue, dove il bando a diversi oggetti in plastica monouso ci ha illuso che potessimo in qualche modo uscirne localmente. Tra le altre isole globali di (relativa) virtù che provano a liberarsi dalla plastica c'è la California, che ha fissato i suoi obiettivi, molto più ambiziosi di quelli degli Stati Uniti: riduzione della vendita di confezioni e imballaggi in plastica del 25 per cento entro il 2032. Il resto è ancora discarica.
Per questo l'orizzonte più importante è quello della politica globale: a maggio ci sarà il nuovo round dei negoziati Onu, con il mandato di arrivare a un trattato internazionale sul modello dell'accordo di Parigi entro due anni.
Dopo un momento di ottimismo la scorsa primavera, quando a Nairobi sembrava essersi creato l'innesco politico giusto, la situazione è tornata a essere di stallo tra due modelli e due letture opposte della crisi.
Da un lato c'è il blocco di paesi (pochi) e della società civile che vorrebbero mettere un freno a monte, alla produzione e all'offerta di plastica. Dall'altro c'è il blocco industria e grandi economie, che vorrebbero puntare tutto su riciclo e pulizia degli oceani.
Un'altra faglia è tra chi (come gli Stati Uniti) vorrebbe un accordo in cui ogni paese stabilisce i propri target nazionali, proprio sul modello dell'accordo di Parigi per il clima, e chi (come l'Unione Europea) vorrebbe dei livelli minimi obbligatori globali, con meno margine per svincolarsi concesso alle singole economie.
Tra le raccomandazioni contenute nel Plastic Waste Makers Index c'è la creazione di una sorta di nuovo fondo loss and damage (quello istituto a COP27) da applicare per aiutare i paesi con gli ecosistemi più compromessi dall'inquinamento da plastica, da finanziarie con i profitti delle aziende più responsabili di questa crisi.
Un'idea ambiziosa, ai limiti dell'impensabile, ma anche il fondo loss and damage per il clima è stato a lungo considerato impensabile e irricevibile, fino all'assemblea plenaria finale di Sharm el-Sheikh a novembre, quando è diventato realtà.
Per questa settimana è tutto, se hai voglia di scrivermi la mia mail è: ferdinando.cotugno@gmail.com. Il 14 febbraio sarò a Mantova, al Cinema del Carbone, per parlare del film Rebellion e di Primavera ambientale. Se il tema degli scienziati che non stanno bene ti ha colpito, se ne parla lunedì a Torino al Centro Studi Sereno Regis, io non ci sarò ma secondo me sarà una conversazione interessante. Come mi sembra interessante anche un evento alla Triennale di Milano, la presentazione di Rotte del clima, la prima iniziativa italiana di advocacy e ricerca su clima e migrazioni. A presto, buon sabato, buon finale di Sanremo!
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