La Casa Bianca ha deciso di rescindere una vendita all’asta di alcune aree marittime avvenuta durante la presidenza Trump, che aveva portato a un incasso molto modesto. L’Alaska è da decenni al centro della contesa politico-ambientale, affare spinoso complicato anche dalla posizione dei nativi, che vivono dei proventi delle estrazioni
Il più esteso stato americano è anche uno dei più spopolati: eppure l’Alaska è spesso al centro tra le polemiche tra democratici e repubblicani. E non si tratta di polemiche partitiche tipo quelle che ad esempio vedono coinvolti l’amministrazione di Joe Biden e il Texas sulla gestione dei migranti provenienti dal confine messicano.
Anche se l’Alaska spesso vota conservatore, spesso gli eletti sono molto pragmatici: non è un caso che sia il senatore repubblicano Dan Sullivan sia la sua collega Lisa Murkowski siano due voti su cui il presidente può contare per approvare provvedimenti di chiara matrice bipartisan.
C’è un punto però che divide i conservatori moderati dell’Alaska dalla leadership nazionale dei dem: l’attività di estrazione petrolifera. Anche l’unica rappresentante del partito del presidente, Mary Peltola, ha una posizione molto pragmatica su questo, anche perché alcune comunità di nativi vivono dei proventi dell’attività estrattiva.
Rescindere
La segretaria al Demanio Deb Haaland ha deciso di rescindere una delle decisioni più controverse dell’amministrazione Trump, ovvero la cessione in comodato di alcuni terreni federali che si trovano nel cosiddetto Rifugio Nazionale Artico di Protezione della Fauna Selvatica, situato nella parte Nord dello Stato, al confine con il Canada, grande più o meno come la Svizzera.
La liceità o meno delle ricerche di petrolio in quest’area è una controversia pluridecennale: da un lato c’è chi vuole mantenere una delle più vaste zone naturali mai toccate dall’uomo e dove si trovano numerosissime specie animali protette e di conseguenza consentire agli indigeni di continuare a vivere in armonia con la natura, dall’altra l’argomento dei repubblicani che sostengono che così si blocchi lo sviluppo di un’attività fiorente che potrebbe creare 130mila posti di lavoro circa ed aumentare l’indipendenza americana dalle importazioni di petrolio.
Anche per questo nel 2019 l’amministrazione Trump aveva messo in vendita all’asta due tratti di territorio marittimo di fronte alle coste del rifugio faunistico.
Soltanto che, quando nel 2021 ci sono stati i risultati di questa vendita, gli introiti sono stati molto meno di quelli previsti: soltanto due piccole compagnie locali hanno partecipato per un guadagno di circa 14 milioni di dollari per le casse federali del demanio americano, significativamente di meno rispetto al miliardo e ottocento milioni previsto.
Bisogna però dire che la posizione di Biden si è comunque mantenuta lontana da certi ideologismi ambientali: lo scorso marzo è stato approvato un progetto molto simile in un’altra parte dello stato, vicino alla città di Anchorage: il cosiddetto progetto Willow, che dovrebbe portare all’estrazione giornaliera di circa 180mila barili di petrolio al giorno.
Anche in quel caso si toccava un’area incontaminata e il presidente incontrò un sostegno pressoché bipartisan sul progetto, ritenuto cruciale per lo sviluppo economico dell’Alaska.
Aria di battaglia
Con questa mossa, invece, l’amministrazione ha ottenuto il plauso di alcuni ambientalisti che però spesso vivono molto lontano dallo stato, mentre in Alaska, al netto del consenso di alcune tribù native, c’è aria di battaglia: si annunciano nuovi ricorsi nelle corti federali perché si annullerebbe una vendita già avvenuta per alcuni vizi di forma e di sicuro la composizione conservatrice della Corte suprema fa ben sperare per i sostenitori delle trivelle e per un’ulteriore restrizione dei poteri federali nei confronti dello sfruttamento minerario.
Questo atteggiamento da parte del governo federale di certo non porterà a particolari sconquassi politici, dato che l’Alaska, come detto sopra, rimarrà saldamente nel campo repubblicano. Bisogna però notare che questo atteggiamento dirigista nei confronti dei lavoratori dell’industria estrattiva ha trasformato uno stato come il West Virginia: da bastione dei democratici post-New Deal e roccaforte del trumpismo. E ha contribuito a rafforzare la percezione dei democratici come partito delle elite urbane che non capiscono le esigenze delle aree rurali remote.
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