Buongiorno,

«Ma non potrò precludermi lo scempio / neppure obnubilando la ragione, oppure coltivando lillusione di essere / in un sogno e al mio risveglio, sì, / approdare ad una condizione di pre-catastrofico stupore / l’uomo prima dell’Antropocene».

Oggi inizio con questi versi di Tutto tace, perché questo è un numero di Areale scritto mentre ascolto Karma Clima, il nuovo album dei Marlene Kuntz, creato nel corso di una serie di residenze artistiche di montagna, sulle Alpi occidentali, con la crisi climatica all’orizzonte, lì dove questa crisi si vede dritta e limpida.

Tutto quello che so (e di cui spesso diffido) della musica italiana negli ultimi anni è stato stracciato dall’esistenza di qualcosa come Karma Clima, mi piace vedere come nel 2022 una band attiva da due decenni sappia ancora essere contemporanea, porsi il problema di evolvere insieme alla realtà che c’è intorno. Mi riempie di speranza vedere come Cristiano Godano e i Marlene abbiano scelto di fare una cosa tanto difficile, così poco naturale nel contesto attuale.

Sono contento, perché per chi fa musica occuparsi di clima non è piantare alberi (o tanto meno organizzare assurde feste di massa in ambiente naturale). Occuparsi di clima è starci dentro, e portarci dentro il proprio pubblico, senza risposte, ma con domande nuove, parole nuove. «Nuotando nell’aria», se necessario. Il disco è bello ed è pieno, per l’appunto, di pre-catastrofico stupore.

La paura ha esaurito la sua missione storica

Mercoledì mi ha scritto un lettore, Enrico, e mi ha sottoposto una serie di domande nuove che condivido con te, perché questo è un lavoro di comunità. È un posto più che un testo, e questa newsletter ha senso solo farla così. Dunque. Dice Enrico: «E se invece i “nostri” temi fossero stati più importanti per le ultime elezioni di quanto non sia apparso dalla (scarsissima) frequenza con cui se ne è parlato in campagna elettorale? E se, dopo aver noi usato per anni la paura della crisi eco-climatica come strumento retorico e di presa di coscienza, scoprissimo che l’esito politico della consapevolezza che si è creata non va nel senso della transizione ecologica, della decarbonizzazione, del green new deal, della giustizia climatica? Se andasse in senso del tutto opposto, verso la difesa “nazionale” di risorse e industrie, verso rapporti predatori con il sud del mondo, verso muri alle frontiere e apartheid amministrativo interno, verso la gerarchizzazione e segmentazione della società e la creazione di nemici interni ed esterni, funzionali a giustificare, imporre e mantenere una decrescita tutt’altro che felice?».

Ci ho riflettuto. Abbiamo vissuto il risultato elettorale del 25 settembre come una risposta innaturale e per certi versi irrazionale alla crisi climatica, come se il senso di catastrofe vicina e presente si fosse perso nel viaggio tra le notizie, le sensazioni e le mani nell’urna, come se qualcosa non avesse funzionato e andasse quindi riparato. La riflessione di Enrico è che invece potremmo aver capito benissimo – come paese che va al voto – cosa sta succedendo e aver scelto – anche in virtù della crisi climatica – il senso di fortezza che un partito come Fratelli d’Italia può offrire ai suoi elettori.

È una lettura interessante, che condivido solo in parte, ma mi stimola alcuni pensieri. Tra cui uno in particolare: la paura ha esaurito la sua missione storica. È diventata un’emozione politicamente esausta, inutilizzabile per l’ambientalismo, perché troppo diffusa e generalizzata. Di quante cose abbiamo paura come cittadini, persone, genitori, figli, sorelle, fratelli, amici? Come si fa a sceglierne una e dire: «Questa è il mio orizzonte»?.

Qualcuno lo ha fatto, il mondo è in parte cambiato dopo questa scelta, il racconto della paura è stato importante per arrivare fin qui, ma la paura non è ulteriormente scalabile. Ci ha dato quello che ci doveva dare. Ora all’azione politica servono: costruzione, speranza, desiderio, immaginazione. La nostra civiltà sta scappando da se stessa, e non molto efficacemente, ma qual è la destinazione? Qui le risposte hanno fallito: un parco eolico è uno strumento, non una destinazione. Anche un’economia decarbonizzata è uno strumento, non una destinazione. Cosa c’è dopo, dietro, oltre? È di questo che dovremmo occuparci, oggi. Dietro, dopo, oltre.

Primavera ambientale

Mi prendo qualche riga per una notizia più personale, perché riguarda anche Areale e il lavoro che facciamo con Areale. Il 14 ottobre esce un libro che ho scritto provando a unire i puntini del lavoro quotidiano fatto in questi anni per Domani e Areale, raccontando i movimenti per il clima e l’ecologia politica in Italia e fuori dall’Italia. Si intitola Primavera ambientale, l’editore è Il Margine.

Sì, primavera come quella silenziosa di Rachel Carson, perché sempre da lì partiamo. E primavera come le primavere rivoluzionarie, accumulo e rilascio di energia per il cambiamento. La primavera ambientale scoppiata tra il 2018 e oggi ha determinato la storia politicamente più importante degli ultimi decenni: la lotta contro la crisi climatica come riscatto e rilancio del pensiero progressista, come occasione di una riscrittura dei codici, dei margini di azione, delle sconfitte precedenti.

L’idea del libro è fare un passo indietro, e capire cosa c’è dentro questa forza, e farne uno avanti, per immaginare come questa forza possa incidere in Italia e nel mondo nei prossimi anni e decenni. Il movimento globale per il clima ha ottenuto straordinarie vittorie culturali, ancora da tradurre in vittorie politiche. Hanno cambiato le menti, non ancora le policy. Come si procede da qui in avanti? Dove, perché, come può evolvere l’ecologia politica?

Questo è quello che ho provato a fare con Primavera ambientale. Se questo libro esiste è anche grazie a te che leggi, condividi, contribuisci a questa newsletter, quindi grazie, davvero. Se mai dovessi leggerlo, sarei davvero felice di sapere cosa ne pensi. Un libro non è mai solo un libro, un oggetto di carta con una copertina, delle parole e delle idee, ma l’inizio di una conversazione. Ci saranno incontri, presentazioni e cose, ma intanto il 14 ottobre esce in libreria.

La nuova frontiera del greenwashing

Mettiamo che il mio appartamento a Milano abbia un obiettivo di riduzione della plastica e che sia alla ricerca di incentivi finanziari per diventare più virtuoso. Quindi emetto un bond al mio condominio, ricevo delle risorse, in cambio di un obiettivo chiaro, preciso e misurabile di riduzione della plastica che produco. Il tasso di interesse è basso, al di sotto dei valori di mercato, proprio per incoraggiarmi a ridurre la plastica, ma se io non riesco a centrare quell’obiettivo, dovrò pagare una penale al mio condominio – che tanto aveva avuto fiducia in me dandomi dei soldi – sotto forma di un tasso di interesse più alto. Cosa può inceppare il meccanismo?

Per esempio che io abbia il potere di decidere da solo quali sono i miei obiettivi, e abbia facoltà di mettere la soglia da non superare in alto, così in alto che sia impossibile superarla, mettiamo che io decida di emettere un bond che mi premia se riesco a produrre meno di 100 kg di plastica al giorno. Che senso avrebbe? Dato che non produco la plastica di un supermercato, non potrò mai sgarrare, continuerò a fare bella figura con i condomini e ad avere soldi a un tasso agevolato, senza però incidere minimamente sull’ambiente.

Sarebbe un’assurdità, se le cose funzionassero così, purtroppo le cose funzionano esattamente così.

Bloomberg è andata a guardare dentro uno strumento apprezzatissimo dalle aziende e dagli investitori, gli SLB, i sustainability-linked bonds, i bond per prendere soldi in prestito a tassi agevolati con obiettivi legati alla sostenibilità. Sono così apprezzati che a volte la domanda è due, tre o cinque volte superiore all’emissione.

Gli SLB funzionano esattamente come nell’ipotetico esempio della plastica e del condominio: le aziende li emettono, sono legati a degli obiettivi di performance, ma sono le aziende stesse a stabilire quali sono gli obiettivi da raggiungere, ed è molto, molto frequente che quegli obiettivi siano «deboli, irrilevanti o addirittura già raggiunti».

Il data set analizzato da Bloomberg è di 70 miliardi di dollari in bond sostenibilità, quindi tutt’altro che irrilevante. Il mercato generale dei corporate bond però vale 22mila miliardi di dollari e questa nuova evoluzione chiamata SLB è diventato il nuovo stadio del greenwashing. È più facile capirlo con un esempio.

Chanel ha emesso un bond legato alla sua riduzione di emissioni Scope 3 (quelle legate a tutto l’arco di vita dei suoi prodotti). La soglia che loro hanno stabilito è che il bond sarebbe stato senza penale se Chanel avesse tagliato il 10 per cento delle sue emissioni entro il 2030. Oltre a essere una soglia bassissima (per dire, l’Ue intende tagliare il 55 per cento al 2030), quello fissato era anche un obiettivo già raggiunto (Chanel è a -21 per cento, secondo i loro stessi bilanci di sostenibilità). Quindi è interessante come l’azienda (Chanel come tante altre) avesse preso sul mercato risorse per incoraggiarla a fare una cosa irrilevante, che comunque aveva già fatto. Gli esempi dell’inchiesta sono tanti e tutti piuttosto scoraggianti.

Il trucco più usato, al di là dell’esempio di sopra, è escludere del tutto dagli obiettivi del bond le emissioni Scope 3. La differenza tra i tipi di emissioni è così importante che vale la pena ripassarla.

Emissioni Scope 1: quelle che derivano direttamente dagli impianti di produzione. Emissioni Scope 2: quelle che derivano dall’energia con cui quegli impianti sono alimentati. Scope 3: tutte le altre, che coprono quindi quelle dei fornitori, dell’indotto, dell’uso e dello smaltimento del prodotto. È la fetta più grande, e non è meno importante delle altre, dal momento che – una volta nell’atmosfera – il riscaldamento globale non fa differenza tra Scope 1, 2 o 3.

È una storia in parte simile a quella delle emissioni di metano da flaring della scorsa edizione di Areale: in quel caso il trucco è che nessuno contava le emissioni degli impianti partner. Quelle emissioni nascoste erano orfane e senza padre o madre, ma comunque finivano in atmosfera.

Ecco, uno dei grandi problemi degli strumenti finanziari applicati al clima è che grazie a una serie di meccanismi possono anche staccarsi dalla realtà per trarre un vantaggio (come un tasso di interesse più basso, o un’immagine migliore nei confronti dei consumatori, o degli obiettivi più raggiungibili) ma poi la realtà vince sempre. Le emissioni orfane sono pericolose perché ci fanno credere di essere più lontani dal precipizio di quanto non siamo in realtà.

Il ritorno della fauna in Europa

Chiudiamo questo sabato mattina con notizie buone (moderatamente buone). Parliamo di rinaturalizzazione dell’Europa, di ritorno degli animali nel continente, e del successo dei programmi di conservazione. Insomma, rewildling, rivincita del selvatico, o meglio, della possibilità di una convivenza proficua tra l’umano e il selvatico.

Ne parliamo perché è uscito un rapporto di Rewilding Europe. Questo report guarda a una parte limitata del disegno, perché si focalizza solo su cinquanta specie, quasi tutte note e vistose (si dice: carismatiche). Da questa porzione di disegno si vede però un accenno del fatto che la direzione è quella giusta, che alcuni degli strumenti messi in campo stanno funzionando.

Il tema è ovviamente uscire dal racconto di queste isolate storie di successo e farne sistema, con strumenti meno locali e più ambiziosi. Come la Nature Restoration Law, la legge quadro europea proposta a giugno dalla Commissione e in attesa dell’approvazione da parte degli stati membri, che sarebbe un anello di congiunzione tra le politiche climatiche e quelle sulla biodiversità (che la scienza ci implora di trattare come un solo tema). O come la Cop15 di dicembre a Montreal, per chiudere l’anno con l’equivalente dell’accordo di Parigi per la protezione della biodiversità.  

Torniamo alle storie di successo evidenziate dal rapporto di Rewilding Europe. Ci sono specie come i lupi grigi, i castori europei, i bisonti europei, che qui in Europa non stavano così bene da secoli, con numeri spettacolari sia per l’allargamento dell’areale che per la crescita della popolazione.

Il lupo grigio era quasi estinto in Europa, poi (come successo in Italia) siamo passati dagli incentivi alla caccia alla protezione totale, e i numeri sono cresciuti del 1800 per cento dal 1965. Il castoro ha espanso il suo areale del 835 per cento, il bisonte del 400 per cento. Gli stiamo lasciando spazio e loro se lo stanno prendendo. La popolazione dell’alce è cresciuta del 17 per cento dal 1970, l’oca facciabianca del 5000 per cento.

Discorso a parte per il bisonte, il volto di copertina dei programmi di rewildling europei, come inevitabile che sia, visto che parliamo del più grosso erbivoro sulla Terra, uno degli ultimi esemplari di megafauna del Pleistocene, gli animali vissuti durante l’èra glaciale. I bisonti europei stati presi per i capelli, per i peli, un attimo prima dell’estinzione in Europa: a inizio Novecento si era perso ormai più del 99 per cento della popolazione originaria. Quella orientale è tutta discendente degli ultimi dodici esemplari, oggi ci sono 45 gruppi diversi lungo due linee genetiche, il ripopolamento li ha portati fuori dalla foresta primaria di Białowieża, tra Polonia e Bielorussia, rimasto il loro ultimo avamposto (e solo perché erano una specie tutelata per la caccia regale), e li ha condotti in Bulgaria, Romania, nei paesi baltici, nel Regno Unito. Non lo facciamo solo per gentilezza etica, i bisonti hanno un ruolo ecologico nella preservazione del paesaggio, con effetti a cascata su tutte le altre specie, spargono nutrienti e semi sul suolo. Per loro e per noi.

I programmi stanno insomma funzionando: limitazioni alla caccia, reintroduzioni, ricolonizzazioni, corridoi ecologici, strumenti di coesistenza con le attività umane come le compensazioni economiche e soprattutto la formazione delle comunità locali. C’è ancora tanto da fare: una specie di uccelli su otto e una su cinque di mammiferi e rettili sono ancora minacciate in Europa. Questi numeri vanno presi come inizio, però gli inizi vanno celebrati.

Per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui. Se hai voglia di comunicare, scrivermi, parlare di bisonti o del mio libro o di altri libri, o per sapere dove trovarlo (ma è facile: in libreria), l’indirizzo mail è ferdinando.cotugno@gmail.com. Mi trovi anche su Twitter e Instagram. Domani invece lo trovi in edicola, sul web e qui: lettori@editorialedomani.it.

Ci sentiamo sabato prossimo!

Ferdinando Cotugno

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