- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter sull’ambiente e il clima di Domani a cura di Ferdinando Cotugno.
- Questa settimana parliamo di cultura del rischio, dell’Assemblea generale dell’Onu, della scelta di Patagonia e dei suoi limiti, e infine guardiamo insieme bellissime foto di volatili.
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Buongiorno, buon sabato e rieccoci!
Ci ho messo un po’, ci abbiamo messo un po’, ma Areale è tornata. Questo è un weekend non come tutti gli altri, diciamo, domenica si vota, è un voto importante per due dimensioni temporali che ci riguardano.
La prima è che il parlamento post 25 settembre gestirà cinque degli otto decisivi anni – da qui al 2030 – per il dimezzamento delle emissioni in Italia (1 per cento della torta di gas serra) e soprattutto in Europa (8 per cento).
La seconda è che questo è il primo voto nazionale in Italia da quando esistono i movimenti per il clima: nel marzo 2018 non c’era ancora stato il grande risveglio climatico, nel corso di quell’anno avrebbero preso forma Fridays for Future, Extinction Rebellion, Sunrise Movement. Insomma, questa è la prima misura elettorale di quanto quell’onda abbia trovato interlocutori politici e di quanta sia la voglia del movimento stesso di contarsi, la capacità di partecipare, di avere un effetto sugli equilibri politici. Vedremo. (Ovviamente, se hai pensieri su questo, sono qui, la mail a cui scrivermi è in fondo, scrivimi).
È stata un’introduzione lunga, ma non ci sentivamo da un po’, ora partiamo.
Le Marche e noi
Le cose sono andate diversamente, ma queste del 2022 avevano davvero l’opportunità (e, per molti motivi, i partiti ne avrebbero avuto il dovere) di essere le nostre elezioni climatiche, come negli Stati Uniti nel 2020, in Germania nel 2021, in Australia pochi mesi fa.
Non è successo, nonostante la campagna sia stata purtroppo impacchettata da due eventi tragici e simbolici, il collasso della Marmolada e l’alluvione nelle Marche. Il clima, con i suoi eventi estremi, ha provato a entrare nel dibattito, possiamo quasi dire che l’unico elemento climatico di queste elezioni sia stata la realtà, ma la politica italiana ha confermato la sua sovrannaturale capacità di ignorarla, la realtà.
Tanto è stato scritto, detto, analizzato sul disastro del fiume Misa nelle Marche. La mancata pulizia degli alvei, la vergogna del piano di adattamento ai cambiamenti climatici dimenticato da quattro governi consecutivi, il dissesto idrogeologico, il consumo di suolo, il fatto che le Marche governate da Fratelli d’Italia siano un caso di studio di come può essere un paese governato dalla destra al tempo della crisi climatica. E ovviamente la spaventosa proporzione della pioggia caduta: fino a oltre 400 mm in poche ore. Un terremoto d’acqua. E qui entrano in gioco altre due questioni: l’educazione ambientale e la cultura del rischio. Quanto siamo consapevoli che in Italia si può morire di eventi meteo estremi?
Poco, probabilmente poco, l’educazione ambientale e la divulgazione dell’emergenza climatica sono due grandi problemi invisibili, la scarsa cultura del rischio ne è la diretta conseguenza.
Penso alla pandemia, a come ha comportato in pochi mesi una mobilitazione cognitiva, un aggiornamento del nostro sistema operativo mentale. Gli italiani hanno acquisito le basi di una conoscenza complessa, poche informazioni semplici per provare a tenersi al sicuro: come si lavano le mani, la distanza interpersonale, come funziona la meccanica di un’epidemia. Tutto questo col clima non è ancora avvenuto.
Cultura del rischio è passare dalla paura indistinta per la fine del mondo e della civiltà («Come sarà il mondo dei nostri figli?») a un approccio razionale e consapevole durante un pericolo immediato («Come posso tenermi al sicuro stanotte?»).
E la cultura del rischio è la gestione dei nostri corpi e della nostra sicurezza durante un evento estremo ma anche, su una scala diversa, la percezione stessa dell’atto di votare, perché la domanda non è quella vaga e ampia: quale partito è interessato ai cambiamenti climatici? Magari lo sono tutti, ognuno con i suoi strumenti, ma la domanda deve essere più laica e stretta: quale partito ha il piano migliore per navigare materialmente un contesto che diventa ogni stagione più rischioso?
Cultura del rischio è anche mettere a disposizione delle persone strumenti concreti per affrontare una situazione pericolosa, fare di quegli strumenti una priorità politica e amministrativa. E qui parlo dei sistemi di allerta, non quelli che ogni amministrazione locale prova – con le sue poche forze – a mettere a disposizione, ma di uno strumento su base nazionale per avvisare i cittadini in tempo reale di un pericolo imminente come quello della zona di Senigallia la settimana scorsa.
In Italia ci sarebbe anche, visto che è in sperimentazione da mesi un sistema di allarme pubblico, chiamato IT-alert. Non era però ancora operativo nelle aree interessate dall’alluvione.
Cosa abbiamo oggi: l’infrastruttura tecnologica e i risultati di alcuni test, come quello condotto ad aprile nel corso dell’esercitazione sull’isola di Vulcano. L’idea è che quando c’è un evento estremo in arrivo come quello nelle Marche la Protezione civile sia in grado di mandare a tutte le persone nell’area coinvolta un sms di allarme chiaro, comprensibile, con poche semplici istruzioni su come comportarsi.
Sarà importante averlo, sarebbe stato importante averlo già la settimana scorsa, anche se non possiamo sapere se avrebbe salvato delle vite nelle Marche. Forse sarebbe servito essere consapevoli che in Italia, col clima che cambia, è sempre una corsa contro il tempo, e che un sistema in sperimentazione, incompleto ma operativo, sarebbe stato meglio che affrontare l’autunno dei disastri senza alcun sistema.
Il resto del mondo e noi
Le notizie che ci arrivano dall’Assemblea generale delle Nazioni unite a New York sono inevitabilmente legate alla paura nucleare, all’azzardo terrificante di Putin nei confronti dell’Ucraina. La mobilitazione generale, la strategia dell’escalate to de-escalate, l’armamentario della teoria militare novecentesca che continua a perseguitarci, il fantasma delle guerre fredde passate.
Però è successo qualcos’altro, che invece riguarda il presente e la forma futura del mondo. L’idea del pagamento dei risarcimenti climatici ha preso una sua concretezza, una sua ufficialità, quasi un metodo o la traccia di un metodo. L’innesco della tragedia del Pakistan (più di mille morti, un lago nuovo che si vede dallo spazio, un terzo del territorio sott’acqua) ci porta a una conversazione globale che ormai non possiamo non avere (e l’epicentro sarà Cop27 a novembre) e che ci racconta quanto un equilibrio sia cambiato.
Al tempo di Genova 2001 i paesi ricchi inseguivano quelli poveri per farsi pagare i debiti. Vent’anni dopo i paesi poveri inseguono quelli ricchi per farsi pagare i danni della crisi climatica.
Ora questa prospettiva è un po’ più concreta. Il «loss and damage» non aveva mai avuto una legittimazione politica forte quanto quella di António Guterres, segretario generale delle Nazioni unite, che non ha parlato più solo di un principio etico, ma di un format, di una strategia, c’è una proposta spendibile, perché la domanda è dove si prendono questi soldi, come possono le economie più avanzate trovare una cifra che equivarrà a 500 miliardi di dollari all’anno entro il 2030?
«Gli inquinatori devono pagare per i danni causati da ondate di calore, alluvioni, siccità», ha detto Guterres all’Onu. «Oggi io chiedo a tutte le economie avanzate di tassare gli extra profitti delle aziende dei combustibili fossili per indirizzarli in due modi».
Il primo lo conosciamo e fa già parte anche del dibattito politico italiano: per destinarli alle persone in difficoltà con l’inflazione dei prezzi di cibo ed energia. Giusta transizione applicata alla realtà. Il secondo invito di Guterres invece è nuovo: extra profitti anche per pagare i danni e le perdite causati dalla crisi climatica.
Ci vorrà tempo, per cambiare la forma del mondo. Ma quello all’Onu è un passaggio politico importante. E c’è un altro segnale, piccolo ma solido: la Danimarca è diventata il primo paese al mondo a riconoscere il pagamento dei danni della crisi climatica. Sono 13 milioni di dollari, è una cifra piccola (solo il Pakistan dopo il monsone ha davanti un conto di 10 miliardi di dollari) ma sono i primi soldi che un paese Onu decide di mettere per le riparazioni climatiche. Il ministro dello Sviluppo e della cooperazione della Danimarca Flemming Møller Mortensen ha detto che una visita al Bangladesh in ginocchio gli ha fatto capire che fosse giunto il momento di farlo.
Il capitalismo e noi
Un altro pezzo della forma nuova del mondo ce lo ha dato Yvon Chouinard, pioniere dell’arrampicata, tra i primi a conquistare e aprire la strada del gigantesco monolite di El Capitan nello Yosemite, fabbro autodidatta, ambientalista di roccia, nonché ovviamente il fondatore di Patagonia, che ha gestito negli ultimi anni vivendo in una remota fattoria del Wyoming senza smartphone e senza mail, a volte sparendo per intere settimane.
La storia la conosciamo ed è bellissima, però va anche capita, messa in prospettiva. Al bivio tra lasciare in eredità l’azienda ai figli, o venderla, o quotarla in borsa, Chouinard ha scelto una quarta via, di spaccarla in due e affidarla a un trust che ne devolverà i profitti a cause ambientali.
«Il nostro azionista d’ora in poi sarà la Terra», ha scritto in una lettera ai dipendenti di Patagonia. Bello. E poi, al New York Times: «Spero che questo passaggio influenzi una nuova forma di capitalismo che non si riduca a poche persone ricche e un mucchio di persone povere».
È come se Chouinard proponesse un modello, una storia che va al di là del 100 milioni di dollari di profitti di Patagonia che ora potrebbero essere quasi totalmente diretti all’attivismo e alla conservazione.
Chouinard suggerisce un atto di immaginazione in uno spazio – la cultura di impresa – che sembra non riuscire a pensarsi in nessun altro modo che non sia quello predatorio. Il punto è che la storia di Patagonia è tanto bella quanto irripetibile, non sarà mai un modello, riguarda molto di più la (preziosa) eredità umana, politica e spirituale di Chouinard che il futuro del capitalismo della sua interezza.
«Ora potrei morire domani e l’azienda continuerà a fare la cosa giusta per i prossimi cinquant’anni», ha detto, sempre al New York Times.
Al mondo non esiste nessuna altra azienda come Patagonia e nessun altro imprenditore immerso nella consapevolezza ecologista come Yvon Chouinard, e non possiamo affidarci alla benevolenza dei fondatori e delle loro famiglie per spezzare la linea dinastica e quella del profitto predatorio.
Insomma, potrebbero passare decenni prima che qualcun altro decida di fare una scelta come quella di Chouinard, che era – per sua definizione – un «miliardario riluttante», e non è che ce ne siano tanti, al mondo, di miliardari riluttanti. Insomma, questa storia non è il futuro del capitalismo, è solo il futuro di Patagonia (che comunque celebriamo).
Prima di salutarci, come regalo per aver letto fin qui, e per essere arrivati tutti vivi alla fine di una campagna elettorale che non ci meritava, le mie foto preferite tra le vincitrici al concorso Bird Photographer of the Year. Perché dobbiamo sempre ricordarci del motivo per cui facciamo quello che facciamo e siamo quello che siamo.
La prima è di Erlend Haarberg, una pernice bianca in volo sulla Norvegia (primo premio assoluto).
La seconda è di Levi Fitze, un piovanello pancianera in Germania.
La terza è di Achintya Murthy, un parrocchetto testaprugna in India.
(Che meraviglia sono i nomi degli uccelli?)
Per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui, e buon voto, se leggi prima di domenica. Per scrivermi: ferdinando.cotugno@gmail.com. Con Fabio Deotto, autore di L’altro mondo, sarò invece al Parco Nord di Milano, in occasione di Bookforest, un evento organizzato dalla Libreria Alaska. Sarà proprio domenica 25 settembre, nel pomeriggio. Se vuoi, può essere un buon momento per parlare ed esorcizzare. Tutte le informazioni le trovi: qui. Qui invece sentiamo la prossima settimana!
Ferdinando Cotugno
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