Nelle settimana del colpo di stato climatico avviato da Donald Trump e della motosega brandita da Elon Musk, gli Stati Uniti hanno iniziato a ritirarsi anche dall’Ipcc, cioè il più importante organismo di scienza del clima, un’istituzione che ha quasi quarant’anni, che nel 2007 ha vinto il Premio Nobel per la pace e sulla quale abbiamo fondato tutta la battaglia globale contro il riscaldamento globale. Gli Usa non lo hanno fatto in maniera formale, ma con un colpo di scure burocratico.

Una fonte dentro l’Ipcc stesso ci ha comunicato che per decisione unilaterale del Dipartimento di Stato la delegazione degli Usa non parteciperà alla riunione plenaria che parte il 24 febbraio ad Hangzhou, in Cina, per definire i tempi e le modalità del settimo rapporto Ipcc sulla crisi climatica.

L’ultimo era uscito nel 2021, il prossimo verrà costruito nei prossimi anni e dovrebbe uscire in quattro puntate (tre gruppi di lavoro e un riassunto per i decisori politici) entro la fine del decennio, a cavallo, poco prima o poco dopo, del prossimo Global Stocktake, previsto per il 2028.

Gli Stati Uniti hanno la co-presidenza del gruppo di lavoro più delicato, quello sulla mitigazione, quindi sulle misure da prendere per ridurre le emissioni di gas serra, che nel prossimo ciclo dovrà fare anche valutazioni su tecnologie controverse come la cattura e stoccaggio della CO2.

Le decisioni 

Insomma, anche in virtù del loro potere politico e dell’esperienza tecnica, gli Usa si erano presi la responsabilità di guidare il gruppo di lavoro sulle soluzioni. I paesi che hanno la presidenza dei gruppi devono per statuto mettere a disposizione uno staff tecnico che è fondamentale per mandare avanti i lavori e che per gli Usa è gestito dalla Nasa. Gli Stati Uniti hanno deciso di non tenere fede a questo impegno: né loro né gli esperti Nasa parteciperanno ai lavori in Cina, che si concludono il 28 febbraio.

La plenaria dell’Ipcc in Cina dovrà prendere una serie di decisioni importanti. La prima è quella sui tempi. Quelli dell’Ipcc, che aggrega, sintetizza e comunica tutti i risultati scientifici delle varie università e accademie del mondo, sono notoriamente lenti. I rapporti escono ogni sette anni e sono frutto di complicati negoziati politici, oltre che scientifici. Prima i loro risultati vengono messi a disposizione dei paesi e della politica, meglio è.

La battaglia politica è tutta su un punto: se far uscire i nuovi rapporti prima o dopo il prossimo Global Stocktake, che è il documento in cui i paesi fanno il punto su quello che è stato fatto e su quello che è da fare per la lotta alla crisi climatica. L’ultimo Global Stocktake è stato concordato nel 2023 a Dubai: era il motivo per cui quella Cop era così importante, ed era quello che per la prima volta menzionava i combustibili fossili come qualcosa di cui liberarsi.

Un segnale pericoloso

Se i report Ipcc usciranno prima del prossimo Global Stocktake avranno la possibilità di comunicare quanto la situazione è grave e rendere le decisioni più ambiziose.

Se usciranno dopo sarà stata un’altra occasione persa. Una serie di paesi, tra cui Arabia Saudita e Russia, stanno facendo di tutto per ritardare la pubblicazione del prossimo rapporto Ipcc in modo da renderlo meno politicamente efficace. L’uscita degli Stati Uniti dai lavori è un pessimo segnale in questo senso: fa perdere forza e velocità a un processo nel quale le tempistiche sono tutto.

Allargando il disegno al contesto più ampio, il segnale lanciato dagli Stati Uniti di Trump e Musk è che non solo la lotta alla crisi climatica dovrà fare a meno del supporto politico Usa dopo l’uscita dall’accordo di Parigi, ma anche del loro contributo scientifico.

Il sequestro dei dati del Noaa, la ferocia con cui vengono tagliati i finanziamenti a tutti i progetti di ricerca che contengano le parole «cambiamento climatico» e «clima», e ora il distacco dai lavori dell’Ipcc vanno tutti in questa direzione: un attacco alla scienza su una scala che non avevamo mai visto prima e che va anche oltre le tetre promesse fatte durante la campagna elettorale (o contenute nel piano Project 2025 della Heritage Foundation).

Qui siamo anche oltre il negazionismo climatico, quello che abbiamo osservato a partire dal 20 gennaio, data dell’insediamento, è un sabotaggio climatico.

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