Un rintocco dell’altra guerra, quella che si combatte sulla scala geologica per la sopravvivenza umana sulla Terra, è arrivato dall’Antartide e dall’Artico, durante il quarto weekend di combattimenti nelle città e nelle campagne ucraine. Nella distrazione generale, ai due poli sono state registrate temperature di decine di gradi sopra le medie. «È un evento che in Antartide ha riscritto la climatologia», ha commentato il ricercatore italiano Stefano Di Battista, parlando di oscillazioni che un tempo sarebbero state considerate «impossibili», «impensabili».

L’ondata di calore artica e antartica ci ha ricordato come le stesse fonti di energia che nutrono il conflitto in Ucraina stanno velocemente portando il nostro pianeta al punto di rottura. Questa primavera di guerra è il momento più critico che l’umanità abbia mai avuto nel corso della sua storia energetica, le decisioni prese in questi mesi orienteranno la transizione nei prossimi decenni e lo scenario non potrebbe essere più contraddittorio. La guerra della Russia potrebbe stappare o seppellire la transizione energetica, ci sono segnali che vanno in entrambe le direzioni. L’assetto col quale usciremo da questo shock sarà la mappa delle nostre possibilità

In un certo senso la conferenza sul clima di Glasgow del novembre scorso ha rappresentato l’ultima esercitazione teorica su come gli stati possono provare a mettersi d’accordo per una transizione energetica ordinata, in un ambiente controllato, uno spazio dove discutere per due settimane, senza vere conseguenze pratiche, sul lessico dell’abbandono al carbone o dei sussidi alle altre fonti fossili. La reazione alla guerra in Ucraina è invece la stessa cosa, ma calata nella caotica complessità della realtà. Una cosa è reagire a cinquant’anni di scienza sul clima, un’altra a una guerra che rende il terzo produttore mondiale di petrolio, il secondo di gas e il terzo di carbone un paria internazionale, che rischia di sparire da un giorno all’altro dalle mappe energetiche del mondo (del mondo occidentale, per lo meno).

In poche settimane si è creata una voragine energetica a forma di Russia. Tutti i soggetti coinvolti – governi, produttori di energia, organizzazioni sovranazionali – si stanno contendendo la possibilità di riempire quel vuoto, tutti dicono di voler fare una transizione energetica e la stessa idea di transizione energetica ha preso a indicare scenari completamenti diversi.

Due esiti contrapposti

Secondo l’esperto di energia del centro studi Ecco Climate Luca Iacoboni «in questo momento vediamo un generale senso di urgenza verso l’emancipazione energetica, ma la domanda è: emancipazione da cosa? Il primo scenario è l’emancipazione dal gas russo, da ottenere diversificando i fornitori e potenziando l’infrastruttura». Sostituire il gas con altro gas, cambiare la provenienza dell’offerta senza toccarne la composizione e senza alterare la domanda, cioè i consumi, il tutto considerando le rinnovabili solo un’opzione a lungo termine. «La seconda strada è emanciparsi dal gas e dalle fonti fossili in generale e non solo dal gas russo, e questo significa puntare su risparmio, efficienza, rinnovabili, e solo in maniera residuale su capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas liquefatto».

Questa crisi è una finestra di opportunità sia per le ragioni di chi vuole rallentare la transizione sia per chi pensa che l’unica lezione possibile da trarre sia accelerare la stessa crisi e ripensare dalle fondamenta il funzionamento energetico del mondo. La lettura conservatrice ha un senso sociale e politico, in un momento in cui l’energia è diventata una fonte di panico diffuso e i costi minacciano la sopravvivenza delle imprese, la tenuta elettorale dei governi e quella democratica dei paesi. Sarebbe però «una follia», ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres, «chiuderebbe del tutto la possibilità di rispettare l’accordo di Parigi». Per starci dentro, entro fine decennio le emissioni devono essere dimezzate, questa corsa rischia invece di farle aumentare del 14 per cento.

La lettura alternativa, usare la guerra per correre in avanti e non all’indietro, permetterebbe di combattere allo stesso tempo la guerra contro la Russia e quella contro il riscaldamento globale e avrebbe dalla sua parte anche i crudi numeri economici: dal 2019 il fotovoltaico è, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), la fonte più a buon mercato che l’umanità abbia mai avuto. Secondo BloombergNEF solare ed eolico sono la soluzione più economica per il 91 per cento dell’energia elettrica del mondo.

Il caso italiano

L’Italia è un buon caso di studio su come il settore delle fonti fossili di energia, dopo aver causato l’ennesimo stallo geopolitico globale, stia provando ora a presentarsi come la soluzione. Nei mesi in cui la crisi energetica era acuta ma non ancora emergenziale c’è stato il surreale dibattito sull’estrazione di gas nazionale, la meno strutturale delle soluzioni alla volatilità internazionale dei prezzi, dal momento che le riserve italiane corrispondono a circa un anno di consumi (70 miliardi di metri cubi, secondo il ministero della Transizione ecologica).

Il primo riflesso governativo, quando è scoppiata la guerra, è stato un viaggio in Algeria del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi allo scopo di rafforzare la cooperazione energetica con un paese afflitto da problemi interni e ai confini. Il nuovo piano energetico di Eni, che ci aveva a suo tempo rassicurato sull’affidabilità strategica della Russia, prevede ora forniture sostitutive proprio dall’Algeria, oltre che da Norvegia, Libia, Egitto, Congo, Mozambico, non esattamente la geografia della tranquillità e della stabilità. Poche settimane fa, inoltre, il Global Methane Tracker della Iea aveva stimato nel 70 per cento la sottovalutazione delle emissioni di metano del settore energia, gas compreso, che quindi è molto più climalterante di quanto pensassimo.

Il tono del dibattito pubblico italiano sembra però aver scelto il partito del fossile subito e della stabilità climatica più avanti. Hanno usato parole in questa direzione il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Carlo Bonomi. Il presidente di Confindustria ha chiesto anche la sospensione dell’Emission Trading System europeo, lo schema che permette di mettere un costo e quindi un tetto alle emissioni, e la costruzione di nuovi impianti di rigassificazione, per assorbire il gas che arriva liquefatto via mare. «Con prospettive di questo tipo rischiamo il lock-in tecnologico nel gas, cioè investire finanziariamente e tecnologicamente in asset che ci rimarranno sul groppone quando invece dobbiamo abbandonare progressivamente questa fonte», dice Iacoboni, «costruire nuove infrastrutture deve essere l’ultima spiaggia, non la prima soluzione».

Intanto c’è la tentazione del carbone, evocata da Draghi già alla prima settimana di guerra. Non è un problema soltanto italiano: già il 2021 era stato il primo anno da un decennio in cui in Europa la generazione dalla più sporca delle fonti di energia era cresciuta (del 18 per cento) invece di diminuire come programmato nel Green Deal. Il costo del carbone ha toccato i 400 dollari a tonnellata, contro gli 82 dell’anno precedente, aziende di settore che sembrano fallite hanno ripreso a macinare profitti.

La contraddittorietà dello scenario

Allo scoppio della guerra la Germania si è trovata in una posizione energeticamente anche peggiore dell’Italia, col raddoppio del gasdotto Nord Stream preparato e abbandonato.

All’improvviso la Germania ha dovuto mettere in discussione la sua timeline di uscita dal carbone (molto più impegnativa di quella italiana), ha subito messo in cantiere un nuovo rigassificatore (pronto tra tre anni) e il ministro dell’Economia e del clima, il verde Robert Habeck, ha fatto un tour tra i paesi del Golfo per rafforzare la cooperazione.

Negli Stati Uniti il piano climatico per eccellenza, i 550 miliardi di dollari in incentivi alle rinnovabili di Build Back Better, è finito nelle secche del Congresso proprio per l’opposizione di un rappresentante di carbone e fonti fossili come il senatore Joe Manchin. E lo stesso Biden è in una posizione di debolezza inedita nei confronti di quel settore, al quale si era presentato con intenti di rottura e rottamazione. I rapporti di forza – con l’inflazione che corre, il prezzo della benzina che vola e le elezioni di midterm che si avvicinano – si sono invertiti. «I ceo delle compagnie petrolifere devono aumentare gli investimenti e la produzione, hanno la capacità di farlo», ha detto Biden alla Democratic National Committee. «Il mio messaggio è: fatelo».

A Houston nel frattempo si è tenuta la CERAweek, grande conferenza internazionale dell’industria energetica, un buon palco per presentare questi nuovi rapporti di forza. «Tutte le fonti di energia saranno necessarie per una transizione di successo», ha detto Amin Nasser, amministratore delegato di Saudi Aramco, la più grande azienda petrolifera al mondo. «Anche il nostro settore dovrà avere un ruolo». Ed è evidente che il ruolo al quale si riferisce Nasser non è dissolversi e lasciare spazio alle fonti rinnovabili.

Per le rinnovabili questa può essere l’ultima chiamata per presentarsi come una soluzione di sistema per il presente e non solo per il futuro. La guerra in Ucraina ne ha permesso di rafforzare un valore che era stato a lungo sottovalutato: l’indipendenza. A motivare i governi non sono mai stati sufficienti i rapporti dell’Ipcc: l’ultimo è uscito a guerra in corso e Guterres lo ha definito: «Atlante della sofferenza umana». È stato ignorato. Non erano bastati nemmeno i numeri della solitamente conservatrice Agenzia internazionale dell’energia sulla convenienza economica delle fonti pulite. La guerra però ha cambiato tutto anche nella loro percezione. Le parole migliori per esprimere il nuovo inquadramento non le ha trovate un ambientalista ma il ministro tedesco delle Finanze Christian Lindner: «L’energia rinnovabile è l’energia della libertà». La transizione non è priva di conflitti geopolitici, ma ha una geografia molto meno problematica di gas e petrolio.

La risposta tedesca mostra bene la contraddittorietà dello scenario globale: da un lato c’è stato il tour mediorientale del ministro alla ricerca di nuovo gas, dall’altro il pacchetto di Pasqua per rafforzare i tempi e anticipare l’obiettivo di avere energia elettrica all’80 per cento pulita entro fine decennio e interamente pulita alla metà del successivo. Gli elementi della transizione energetica sono oggi gli stessi per tutti: diversificazione dei fornitori, rinnovabili, risparmio, efficienza. La differenza la farà l’ordine delle priorità.

In Italia il primo segnale pro-rinnovabili è stato lo sblocco di guerra da parte del governo di sei parchi eolici tra Puglia, Sardegna e Basilicata, per un totale di 418 MWh. Il nostro paese però continua a inciampare nella sua cronica difficoltà a superare gli intoppi burocratici, che in alcuni casi (come l’eolico) fanno invecchiare i progetti prima ancora che possano essere realizzati.

Prendiamo cosa succede nella regione Lazio: un tempo era tra le più spedite nell’istallazione del fotovoltaico, con il 14 per cento dei numeri nazionali. Poi c’è stata la grande frenata nazionale del decennio scorso, infine è arrivata la moratoria della giunta Zingaretti a tutti i nuovi progetti, autorizzazioni sospese e impianti finiti in coda. È una decisione che ha fatto infuriare il comparto, hanno protestato Alleanza per il Fotovoltaico, Elettricità Futura, Federazione Anie. Da un lato, sembrano piccole beghe locali sullo sfondo di una grande crisi internazionale, dall’altro sono esattamente il freno che sta facendo perdere terreno alla nostra emancipazione da quella crisi e alle ragioni delle fonti rinnovabili come risposta spendibile in tempi utili. Col ritmo attuale gli obiettivi di questo decennio avrebbero bisogno di tre decenni e mezzo per essere attuati.

Intervenire sulla domanda

L’ultimo pezzo del discorso sullo stato precario della transizione energetica alla luce della guerra in Ucraina è anche quello che potrebbe avere gli effetti più immediati: intervenire sulla domanda di energia oltre che sull’offerta. Anche in questo caso l’Italia è un buon esempio dei problemi di un’economia avanzata. Cambiare i consumi e la cultura energetica del nostro paese, abbassare i riscaldamenti, modificare i termini che permettono di accedere ai bonus energetici, lavorare sull’efficienza è un set di soluzioni che, da sole, potrebbero dimezzare la dipendenza dal gas russo entro il prossimo inverno senza aggiungere al sistema altro gas, secondo un articolato studio di Ecco.

«Quelle sul risparmio energetico sono misure che contemporaneamente rispondono all’emergenza, possono diventare strutturali e avere un effetto per gli obiettivi climatici», aggiunge Iacoboni. Un esempio è quello delle pompe di calore, cioè l’elettrificazione del riscaldamento domestico. Una risposta francese alla crisi russa è stata proprio mettere fine a ogni sussidio alle caldaie a metano e offrirne invece uno, da qui alla fine dell’anno, a chi sceglie le pompe di calore. «Se dobbiamo incoraggiare le persone a non essere più dipendenti dal gas, il supporto alle caldaie a metano deve finire, e così faremo», ha detto la ministra per la Transizione ecologica Barbara Pompili. In Italia il Superbonus continua invece a prevedere la possibilità di accesso anche senza interventi di efficienza profonda, continuando a usare una caldaia a metano anche dopo l’intervento. Velocità delle rinnovabili e ruolo del gas nel sistema: è questo il doppio binario sul quale, per ogni paese occidentale, si gioca l’interpretazione della transizione energetica durante la guerra.

La crisi geopolitica ha intanto messo a rischio la cooperazione in vista di Cop27 (l’Ucraina ha addirittura chiesto l’espulsione della Russia da ogni accordo sul clima). Sullo scenario internazionale, però, i paesi che hanno fatto in parte fallire gli obiettivi più ambiziosi di Cop26 – Cina e India – osservano come stanno reagendo alla crisi le aree del mondo che si sono auto-nominate leader del processo, Unione europea e Stati Uniti. Prendono nota di quanto continuino a fare affidamento alle fonti fossili per proteggere il proprio sviluppo, quanto rallentano sul carbone, quanto pianifichino nuovi progetti di estrazione di gas e petrolio. La cooperazione alla base dell’azione sul clima ha resistito a varie guerre in questi anni, ma potrebbe essere definitivamente affossata dalla perdita di credibilità dei paesi occidentali, se questi ultimi dimostreranno di non puntare sulla stessa transizione energetica che tentano di far seguire agli altri paesi.

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