- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter curata da Ferdinando Cotugno sul clima e l’ambiente.
- Con questo numero iniziamo la copertura dalla Cop27, la conferenza Onu sui cambiamenti climatici di Sharm el-Sheikh.
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Ciao, questo è il numero di Areale prima di Cop27, quindi è il momento di parlarne. Mettiamo l’asticella e disegniamo il piano di gioco, capiamo cosa è legittimo attendersi e cosa è inutile aspettarsi, il valore e i limiti di quello che succederà in Egitto. Partiamo, dunque.
Istruzioni per l’uso
Da lunedì, per due settimane, Areale ti arriverà da Sharm el-Sheikh ogni giorno. Sarà un’edizione quotidiana, più breve e sintetica del solito, per raccontarti passo dopo passo cosa succede alla Cop27, cosa osservo, le conversazioni, i sussurri, gli incontri dei corridoi, le decisioni, le soluzioni e le mancanze, un dossier quotidiano su quello che succede nelle due settimane dell’anno più importanti per il clima. Areale da Sharm sarà un cantiere aperto, mio e tuo, vostro e nostro, quindi se hai dubbi, domande, perplessità, se ci sono angoli che ti interessano o cose che non capisci, in fondo trovi la mia mail: scrivimi.
Che Cop sarà
Sarà una Cop difficile. Anzi, la mia aspettativa è che sarà la conferenza Onu sul clima più difficile da molto tempo a questa parte. Perché i temi sono complessi, le aspettative vaghe, gli interessi in gioco fortissimi, il contesto geopolitico sfavorevole, la resistenza dello status quo attrezzata e l’attivismo imbrigliato. Alla fine, sono (anche) i dettagli insignificanti a comporre il senso di una storia: nel video ufficiale di presentazione di Cop27 sullo sfondo si vede una bella pompa petrolifera, e dubito che fosse un riferimento ad Andreas Malm e al suo Come far saltare un oleodotto.
E – come dettaglio un po’ meno insignificante – la comunicazione della presidenza egiziana è stata affidata a un’agenzia di pr chiamata Hill+Knowlton Strategies, che in passato ha lavorato per l’industria del tabacco e per ExxonMobil, Shell, Chevron e Saudi Aramco attraverso la Oil and gas climate initiative. Quell’iniziativa ha contribuito a inquinare il dibattito e spargere disinformazione sulla crisi climatica per conto delle aziende dei combustibili fossili. Hill+Knowlton Strategies ha lavorato anche per Coca-Cola, lo sponsor più controverso dell’evento. Questa è l’acqua in cui ci troveremo a nuotare.
La Cop e il vuoto civile intorno
In quest’acqua mancherà un pezzo fondamentale di biodiversità: la società civile. Nessun risultato mai raggiunto dal processo Onu per combattere la crisi climatica – dall’accordo di Parigi in giù – sarebbe mai stato possibile, dentro i palazzi delle Cop, se non ci fosse stato quello che succedeva fuori dai palazzi, niente sarebbe stato possibile se la società civile globale non si fosse mobilitata. Gli attivisti sono un elemento fondamentale del sistema Cop, ormai sono quasi un pilastro istituzionale, e a Sharm el-Sheikh saranno pochi, perché l’Egitto sta gestendo questo grande evento internazionale togliendo ogni margine democratico di protesta. E senza democrazia non c’è lotta contro i cambiamenti climatici: scienza e protesta sono stati l’innesco di tutto l’avanzamento, se manca uno dei due elementi stiamo correndo su una bici con una ruota sgonfia.
Per esempio. Ajit Rajagopal è un attivista indiano, la sua protesta individuale e innocua era camminare per otto giorni dal Cairo a Sharm el-Sheikh, niente di particolarmente sovversivo. Aveva in mano un cartello con cui chiedeva giustizia climatica. Durante questo percorso è stato arrestato dalla polizia egiziana, come decine di altre persone in episodi simili in vista dell’evento (non sorprendente, dal momento che in Egitto ci sono circa 60mila prigionieri politici).
La colpa di Rajagopal? Non aver chiesto un’autorizzazione per protestare, cioè per camminare da solo con un cartello. Il modello egiziano di sicurezza per Sharm sarà questo: c’è un’area designata per le manifestazioni, una specie di parcheggio nel deserto, isolato da tutto e tutti, dove bisogna registrarsi prima di andare: non esattamente un modello di partecipazione democratica. Prima di essere arrestato, Rajagopal era riuscito a chiamare un avvocato per i diritti umani, che è accorso sul posto ed è stato anche lui fermato. Sono stati rilasciati dopo 24 ore, molto scossi ma in buone condizioni. Questa è la situazione.
Le Cop sono (ancora) importanti
Allora perché seguire questa Cop, che si svolge in un contesto così fosco e con così poca agibilità democratica?
Esattamente per questo: perché il contesto è fosco e la democrazia sarà assente.
Le Cop sono importanti, qualunque attore – statale e non statale – sia interessato al mantenimento dello status quo fossile, quello che porta l’umanità verso il baratro, tifa perché le conferenze Onu sui cambiamenti climatici siano lontane dall’attenzione, perché l’interesse si affievolisca, perché diventino profezie che si auto avverano sulla sfiducia e il pessimismo.
Comunque vada l’evento specifico di Sharm el-Sheikh – e dobbiamo accettare che possa andare male, non portare risultati – noi dobbiamo proteggere il processo Onu. Perché il processo Onu sulla lotta ai cambiamenti climatici oggi non ha alternative. Il progresso climatico arriverà sia dal basso che dall’alto, sono due direzioni di cambiamento entrambe necessarie.
Le Cop sono quelle che ci hanno portato quell’accordo di Parigi, che oggi – sette anni dopo – diamo quasi per scontato, e che invece fu ed è ancora un risultato enorme, da custodire e difendere, una vera e propria Costituzione del pianeta Terra, o la cosa più vicina che abbiamo a una Costituzione, col mandato che l’umanità ha dato a se stessa di proteggersi.
La logica di questa crisi energetica e climatica porterebbe a rendere più veloce la transizione, è quello che hanno detto anche gli analisti, solitamente conservatori, dell’Agenzia internazionale dell’energia: i combustibili fossili sono vicini al picco, il gas non è più considerabile energia utile alla transizione, le rinnovabili possono accelerare anche come conseguenza della guerra in Ucraina. Il punto è che l’azione per il clima è un processo globale: tutti gli stati e le parti (aziende, organizzazioni, banche) devono lavorare in modo coordinato. Nessun ingranaggio può stare fermo e nessun paese o nessuna area del mondo possono immaginare di fare da sé.
Fare da sé è inutile, non serve a niente. Bisogna fare insieme, le Cop sono l’unico luogo dove le nazioni della Terra parlano di come fare questa cosa di proseguire la vita umana sul pianeta in condizioni sostenibili, non esiste oggi un’altra sede, un altro contesto: è lì che si affrontano i limiti, si superano (o non si superano) le diffidenze, si mettono a punto gli strumenti e le regole di questo stranissimo “dilemma del prigioniero” che è la lotta ai cambiamenti climatici.
Le Cop spesso ci deludono, ma senza questo tipo di contesto saremmo messi molto, molto peggio. Rimarrebbero i club dei grandi paesi, come il G20 (vedremo cosa succederà a Bali, durante la seconda settimana di Cop in Egitto, quando in contemporanea si terrà proprio il G20), oppure gli organismi del mondo vecchio (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale), o grandi istituzioni bloccate perché pensate per crisi passate (l’assemblea generale Onu).
La convenzione Onu sui cambiamenti climatici e le conferenze delle parti per implementarla sono l’unico strumento pensato apposta per questa crisi, per questo secolo, per questa sfida. Dobbiamo esserci, dobbiamo osservare, dobbiamo fare attenzione. Ed è quello che faremo.
Loss and damage: la forma della giustizia climatica
Le Cop sono anche il luogo dove la giustizia climatica può prendere o perdere forma. Il loss and damage, la domanda su chi paga per i danni e le perdite della crisi climatica, è lo strumento concreto più attuale per applicare la giustizia climatica. Prima di Cop26 anche alcuni tra gli osservatori più illuminati dicevano: scordatevelo che si troverà una formula per risarcire i paesi colpiti da eventi estremi, come oggi il Pakistan, territorio simbolo di tutto questo, con il suo conto da 40 miliardi di dollari per un monsone fuori scala che non ha altra spiegazione che l’emergenza climatica. E invece il negoziato è andato avanti, a Glasgow non ci sono stati avanzamenti concreti ma è passata la linea di principio per cui i danni e le perdite sono reali, sono un piano diverso dalla solita cooperazione internazionale, sul tavolo, e qualcuno se ne deve occupare: trovare il quanto, il come e il chi sarà la sfida di questa e delle prossime Cop.
Il risarcimento di danni e perdite, seppellire i morti e riparare i viventi, deve diventare la bandiera di qualunque pensiero progressista sul clima, di qualsiasi ambientalismo. Perché a Sharm el-Sheikh si discuterà di danni e perdite su scala globale, ma danni e perdite esistono anche sulle scale locali, anche la terra dei fuochi in Campania è una storia di loss and damage, di comunità da ricostruire, di infrastrutture da ripensare, di ferite da ricucire.
Il percorso guidato da Mia Mottley (premier di Barbados) e Sherry Rehman, (ministra dei Cambiamenti climatici del Pakistan) non è solo un modo per ristrutturare i flussi finanziari pubblici e privati dai paesi ricchi ai paesi poveri, ma è anche un tentativo di ridefinire la stessa intera idea di responsabilità ambientale. Lo slittamento semantico da “aiuti” a “riparazioni” ci parla esattamente di questo. Il diritto di chi ha subito una ferita ecologica a essere risarcito in modo veloce, trasparente e non vessatorio è il centro stesso di ogni battaglia per clima e giustizia sociale. È una battaglia che riguarda anche tutte le zone di sacrificio d’Italia. I cambiamenti climatici possono essere rallentati e contenuti, ma ce n’è una grande quota che dovremo affrontare in ogni caso, e saranno peggiori di quello che vediamo oggi: le nazioni, le comunità e le persone devono essere messe in condizioni di affrontarli senza affondare.
Loss and damage serve esattamente a questo: usare l’immaginazione politica per strutturare nuove forme di soccorso, un soccorso che servirà. Da Sharm non arriveranno strumenti concreti, o quantificazioni: ci vorranno ancora anni. Ma se andrà bene probabilmente avremo un’idea più concreta di cosa significhi questo principio che anni fa sembrava astratto e velleitario.
Cosa aspettarci da Cop27 (e chi ci sarà)
Cop27 non ci porterà né un accordo storico, come Parigi, né un nuovo patto, come Glasgow. La parola d’ordine è implementazione: misurare e concretizzare gli sforzi. Per questo motivo molti capi di stato e di governo diserteranno, con defezioni gravi, delusioni e interessanti ripensamenti.
Capitolo defezioni gravi: non ci saranno Xi Jinping o Narendra Modi. Biden arriverà solo quando avrà districato il groviglio delle elezioni di midterm negli Usa (una grande incognita sulla Cop, in generale, se i democratici perderanno il controllo del Congresso non sarà una bella notizia per il vertice). Sembra non venga Justin Trudeau (e il Canada è il paese con i risultati climatici peggiori del G7).
Capitolo delusioni: non ci sarà il nuovo premier ambientalista australiano Anthony Albanese. Ha detto che non può essere in ogni posto, ma Sharm non è «ogni posto», e la sua assenza è un tradimento del suo mandato popolare sul clima. Ci sarà invece il nuovo premier britannico Rishi Sunak, che inizialmente sembrava intenzionato a non venire in Egitto e poi ha cambiato idea. Ci saranno anche Scholz, Macron e ci sarà anche Giorgia Meloni e ascoltarla sarà piuttosto interessante: citerà di nuovo Scruton?
Implementazione vuol dire trovare una strada per rilanciare e sostenere (anche con la finanza) 193 transizioni ecologiche diverse, una per ogni paese della convezione Onu sul clima. È qui la complessità delle Cop: un obiettivo globale, ma quasi duecento contesti e modi diversi per arrivarci localmente.
Uno degli impegni presi a Cop26 era rinnovare e rilanciare gli ndc, i nationally determined contribution, gli impegni climatici di ogni paese: solo una piccola percentuale però ha migliorato i propri, come promesso da tutti a Glasgow. È un tema delicato: il processo prende o perde forza proprio da questi documenti, che sono i compiti a casa della crisi climatica.
È in questi testi in apparenza oscuri che si gioca la questione fondamentale: avremo una lotta ai cambiamenti climatici che esclude o include i combustibili fossili? Non ci sarà un grande patto finale, ma dalla forma che avranno gli ndc a fine Cop27 capiremo molto sul nostro destino. Così come dai discorsi dei leader che ci saranno: sarà un confronto politico più che diplomatico, al momento la transizione oggi è senza una guida chiara (l’Europa è distratta dal gas, Biden dalle elezioni), ma la speranza è che qualcosa o qualcuno possa emergere come una voce troppo forte per non essere ascoltata.
E l’Italia, quindi?
Ultimo appunto su cosa sarà questa Cop27 per l’Italia: Giorgia Meloni, come detto, parteciperà al segmento politico di alto livello, parlerà lunedì 7 novembre, nel tardo pomeriggio. Dovrà spiegare in che modo l’Italia intende la mitigazione della crisi climatica, qual è la sua visione. Sarà una debuttante, viene da un partito e da una coalizione non esattamente legati al clima e all’ambiente, avrà tutti gli occhi puntati addosso e l’onere della prova a suo carico, sarà una delle sue prime vere uscite pubbliche internazionali.
Sarà interessante anche capire se ci saranno dettagli su cosa intende per piano Mattei per l’Africa, se è un’idea reale o uno stunt retorico, quanto include le tematiche climatiche. Il ministro Pichetto Fratin l’accompagnerà, partecipando poi al negoziato interministeriale della settimana successiva. Ci sarà l’inviato per i cambiamenti climatici Alessandro Modiano, che si presenta con un Fondo italiano per il clima finalmente arrivato ai decreti attuativi e con l’avvio di due partnership energetiche di sostegno alle transizioni di Indonesia e Vietnam. La vera domanda, come detto da Luca Bergamaschi del think-tank Ecco, è: saranno basate su rinnovabili o su gas? Continueremo a vendere la narrazione che senza gas non c’è sviluppo?
Infine, e sono parole che appuntiamo, Modiano – che è un diplomatico con esperienza proprio al Cairo – ha detto di essere tranquillo che il contesto di Sharm garantirà una discussione libera, proprio grazie al contesto Nazioni unite. Vedremo. Il timore è che sia libera e sicura dentro, ma che nessuno sa cosa accadrà fuori. Se sei a Sharm per attivismo, contattami!
Per questa settimana è tutto, ci sentiamo dall’altra parte, per rimanere in contatto con me la mail è ferdinando.cotugno@gmail.com, puoi seguire gli aggiornamenti passo dopo passo sui miei account Twitter e Instagram. Per parlare con Domani, invece, scrivi a lettori@editorialedomani.it.
A prestissimo!
Ferdinando Cotugno
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