- I delegati degli oltre 190 governi coinvolti sono rimasti isolati a litigare sul futuro del mondo nell'idillio pedemontano di Interlaken, in Svizzera, dove poi la sintesi finale del sesto rapporto IPCC è stata presentata alla stampa e al mondo nel pomeriggio del 20 marzo.
- La sintesi finale di ogni rapporto IPCC invece è il documento più politico, e quindi più aperto agli interventi dei governi.
- Ma quella sintesi è anche la lettera della scienza ai decisori politici ed è uno dei paradossi della diplomazia climatica come gli stessi decisori politici possano negoziare su che tipo di messaggio ricevere di fronte all'opinione pubblica.
Pochi giorni dopo l'uscita del rapporto Onu che plasmerà la lotta ai cambiamenti climatici di questo decennio, stanno venendo fuori anche i racconti di chi ha osservato i negoziati, durati giorni, sulla forma, sul lessico, sull'intonazione di quel testo.
I delegati degli oltre 190 governi coinvolti sono rimasti isolati a litigare sul futuro del mondo nell'idillio pedemontano di Interlaken, in Svizzera, dove poi la sintesi finale del sesto rapporto IPCC è stata presentata alla stampa e al mondo nel pomeriggio del 20 marzo.
Il governo degli Stati Uniti ha preteso di ammorbidire il linguaggio sull'equità della lotta per il clima (sentendosi chiamato in causa), così come la Cina si è opposta all'indicazione di tasse al consumo come strumento utile per la riduzione delle emissioni (troppi rischi per il commercio), mentre i rappresentanti di paesi diversamente fossili come Arabia Saudita e Norvegia hanno combattuto i riferimenti più espliciti alle fonti di energia che le hanno fatte ricche (e che stanno però riscaldando il mondo a livelli insostenibili).
Il documento politico
Ogni singola parola di questo testo di meno di quaranta pagine è stata discussa dai negoziatori, ne sono stati vagliati i significati geopolitici, finanziari, industriali.
È parte normale del processo: ogni rapporto IPCC è diviso in quattro parti: le prime tre sono state pubblicate a puntate a partire da agosto del 2021 ed erano le più lunghe e scientifiche, era la fotografia della nostra conoscenza e del consenso scientifico e non era aperta al dibattito.
La sintesi finale di ogni rapporto IPCC invece è il documento più politico, e quindi più aperto agli interventi dei governi.
Ma quella sintesi è anche la lettera della scienza ai decisori politici ed è uno dei paradossi della diplomazia climatica come gli stessi decisori politici possano negoziare su che tipo di messaggio ricevere di fronte all'opinione pubblica.
A raccontare il dietro le quinte di uno dei più importanti documenti internazionali di questa fase storica è l'unica organizzazione ammessa come osservatrice esterna: Earth Negotiations Bulletin, il servizio della ong canadese International Institute for Sustainable Development.
Gli osservatori dell'Earth Negotiations Bulletin hanno inoltre raccontato una dinamica frequente anche alle COP, le conferenze sul clima dell'Onu: le discussioni sulla sintesi a Interlaken si sono protratte oltre i tempi previsti, i paesi più vulnerabili di solito sono anche i più poveri e remoti, per un negoziatore dall'Africa meridionale o dall'Oceania non è facile comprare un nuovo biglietto aereo o pagare una notte in più in hotel, e così in tanti hanno dovuto lasciare la località svizzera prima che la discussione fosse conclusa, lasciando campo libero per la negoziazione sul loro futuro ai governi che non hanno problemi di budget.
Le mosse della Cina
Un esempio di come funziona questa azione di lobby governativa è stato l'intervento del governo cinese per togliere i numeri più importanti del report (riduzione del 60 per cento delle emissioni di gas serra e del 65 per cento della CO2 nel 2035 rispetto ai livelli del 2019 per avere una possibilità su due di stare dentro +1.5°C di aumento della temperatura) dal riassunto per i policymaker e tenerli in una tabella a margine.
Sembra un dettaglio secondario, non lo è: smorzare l'enfasi su un taglio così drastico delle emissioni aiuta le prospettive internazionali della Cina, che ha intenzione di continuare a far crescere le proprie fino al 2030 e di azzerarle trent'anni dopo, nel 2060.
L'Arabia Saudita ha combattuto una specifica formula: «root cause», i combustibili fossili come «causa ultima» dei cambiamenti climatici, e invece ha fatto inserire riferimenti robusti alla tecnologia sulla quale hanno più fiducia (ancora non comprovata dai fatti), quella di cattura e stoccaggio della CO2 dall'atmosfera. Insomma, dopo il passaggio in mani saudite, il documento è un po' meno focalizzato sulle cause energetiche della crisi climatica e più ottimista sulla possibilità di uscirne per una via tecnologica ancora in fase di prototipi.
Gli scienziati avevano chiesto che nella sintesi si parlasse di phase-out da tutte le fonti fossili, i sauditi hanno tolto anche questo.
Anche il governo norvegese ha chiesto (e ottenuto) che le parole usate per la riduzione di emissioni da combustibili fossili (la loro primaria fonte di ricchezza, nonostante la loro cultura ecologista) fossero più blande di come volevano gli scienziati.
Gli Stati Uniti hanno impedito che nel documento si specificasse quanto è importante il trasferimento di tecnologia dai paesi industrializzati a quelli meno sviluppati, passaggio che loro ostacolano da sempre e a maggior ragione oggi, dopo l'approvazione dell'Inflation Reduction Act, che indirizza centinaia di miliardi di dollari proprio nello sviluppo di nuove tecnologie ecologiche.
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