I nuovi vincoli alla realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili rischiano di ostacolarne lo sviluppo e di non consentire il rispetto degli impegni assunti dall’Italia nei riguardi dell’Ue
Qual è il metodo con cui in Italia si imbriglia lo sviluppo di un certo settore economico? Basta insinuare tra le pieghe di un provvedimento vincoli burocratici che ostacolano il libero dispiegarsi di alcune attività. È il metodo seguito dal governo con lo schema di decreto legislativo in materia di regimi amministrativi per la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (impianti Fer), approvato nel Consiglio dei ministri (Cdm) del 7 agosto scorso.
Come si legge sul sito del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) il provvedimento, che costituirà un Testo unico delle disposizioni del settore, persegue gli «obiettivi di semplificazione individuati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Gli operatori, invece, spiegano che la bozza di riordino normativo va in senso opposto rispetto al fine dichiarato.
Le semplificazioni
Il comunicato stampa successivo al Cdm spiega che, «per effetto delle semplificazioni apportate», si riducono da quattro a tre i regimi amministrativi previsti per la realizzazione degli impianti Fer: l’attività libera, la procedura abilitativa semplificata (Pas) o l’autorizzazione unica.
L’attività libera non richiede la presentazione di alcuna comunicazione o dichiarazione. La Pas riguarda, invece, i casi in cui siano necessari atti di assenso, rientranti nella competenza comunale. Per gli interventi che ricadono nel regime di autorizzazione unica, poi, il provvedimento disciplina la verifica della completezza della documentazione, stabilendo i termini per le eventuali integrazioni e per la conclusione della conferenza di servizi.
Peccato che, dopo aver enunciato le misure di semplificazione, il comunicato stampa ometta di citare quelle di complicazione. L’hanno fatto gli operatori del settore.
Le critiche
Elettricità Futura – che, come si legge sul suo sito web, «rappresenta oltre il 70 per cento del mercato elettrico italiano» - afferma che lo schema di decreto, «anziché semplificare e accelerare il rilascio delle autorizzazioni come imporrebbe la delega del Parlamento, introduce nuove barriere e rallentamenti allo sviluppo delle energie rinnovabili», e quindi al percorso verso la transizione energetica.
Innanzitutto, mentre la normativa attuale consente di ammodernare e potenziare gli impianti rinnovabili già installati senza ulteriori autorizzazioni anche in presenza di vincoli paesaggistici, trattandosi di impianti che già avevano ottenuto il placet amministrativo, il nuovo testo prevede che anche per essi si debba chiedere una nuova autorizzazione, «introducendo inutili costi e lungaggini burocratiche». E se i progetti riguardano beni come ville o parchi non tutelati dal Codice dei beni culturali, ma di «non comune bellezza», o complessi di particolare valore estetico, inclusi centri e nuclei storici, si introduce pure l’obbligo del parere delle Soprintendenze. «Con i numerosi vincoli presenti nel territorio italiano e l’atteggiamento noto delle Soprintendenze verso i progetti della transizione energetica» - afferma Elettricità Futura – si avrà «un grave, nuovo e inutile aggravio dell’iter autorizzativo, aumentando i costi per le industrie e per il Paese».
Gli impegni con l’Ue
Nel provvedimento gli impianti Fer sono definiti «di interesse pubblico prevalente» - come previsto dalla direttiva Red III (n. 2023/2413) dell’ottobre scorso - con la conseguente priorità della loro realizzazione rispetto a eventuali ostacoli. Tuttavia, determinate aree del territorio e particolari tipologie di progetti potranno esserne escluse con decreto del presidente del Consiglio, vanificando quella priorità che permetterebbe una più sollecita realizzazione degli impianti.
Inoltre, come ricorda ancora Elettricità Futura, l’erogazione dei fondi del Pnrr è «legata al mantenimento di precisi impegni», ma le complicazioni in via di introduzione rischiano di non consentirlo. La direttiva Red III dispone che entro il 2030 sia garantita una quota di rinnovabili pari almeno al 42,5 per cento, tendendo al 45 per cento. Nel luglio scorso, l’Italia ha presentato all’Ue una proposta di aggiornamento del Piano nazionale integrato Energia e Clima (Pniec), fissando l’obiettivo al 40,5 per cento entro il 2030.
L’associazione afferma che con il decreto proposto «si apre un grave problema di credibilità per il nostro Paese – che prende impegni ma poi fa l’opposto – e anche di responsabilità nei confronti dei cittadini italiani, perché saranno loro a dover pagare i maggiori costi dell’energia e le sanzioni europee» in caso di procedura d’infrazione. Un grande classico dei governi italiani.
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