Il passaggio della tempesta Boris in Italia ha innescato, come effetto collaterale, un dibattito sull’obbligo di polizza assicurativa per aziende e privati contro i danni da emergenza climatica. È un tema importante: fino a che punto possiamo affrontare la crisi climatica e l’accorciamento dei tempi di ritorno degli eventi estremi assicurandoci tutti?

Le polizze sono uno strumento utile, finora sottovalutato, ma il confronto con altre economie industrializzate dimostra che non possiamo farci illusioni. È vero, l’Italia è uno dei paesi meno assicurati dell’Unione contro i rischi connessi al clima, solo il 6 per cento delle case e il 5 per cento delle imprese.

La media europea è del 25 per cento ed è comunque considerata troppo bassa: un rapporto della Commissione lo definisce «gap assicurativo» da colmare, ma aggiunge: «Non sarà possibile proteggerci da tutti i rischi di catastrofe climatica attraverso le polizze né sarebbe una buona idea provarci, invece di puntare sull’adattamento».

C’è una formula che viene usata sempre più spesso dagli esperti per raccontare le difficoltà di questo settore: «Mondo inassicurabile».

Giovedì 26 settembre il World Weather Attribution ha pubblicato uno studio lampo sulla perturbazione Boris, e il risultato è che le emissioni di gas serra hanno reso i quattro giorni di peggior pioggia della storia recente europea due volte più probabili.

Dave Jones, direttore della Climate Risk Initiative della University of California, è stato solo l’ultimo in ordine di tempo a dire: «Credo che stiamo marciando verso un futuro inassicurabile». Le vittime da eventi meteo stanno diminuendo, perché aumentano prevenzione e cultura del rischio, ma stanno salendo i costi economici e finanziari di questi stessi eventi.

Un rapporto Onu intitolato “2023 Interconnected Disaster Risks” aveva come sottotitolo proprio «mondo inassicurabile» e ricordava come dagli anni Settanta il costo dei disastri è aumentato di sette volte. Secondo un’analisi di Swiss Re Institute, questo costo aumenterà di altre due nei prossimi quindici anni. Annualmente è la World Bank a fare il conto: 520 miliardi di dollari all’anno.

Punti di non ritorno

Non è solo il sistema fisico e climatico ad avere dei punti di non ritorno, ne ha anche quello economico, uno dei più pericolosi è proprio quello in cui le compagnie di assicurazione e riassicurazione non riescono più a far fronte a questo tsunami di danni, e diverse economie avanzate, come Stati Uniti e Australia, sembrano già piuttosto vicine. Il già citato rapporto Onu sostiene che in Australia già oltre mezzo milione di abitazioni non si potranno più assicurare nel giro di pochi anni perché i rischi climatici sono troppo alti.

La domanda è: dove si trova questo punto di non ritorno per il mondo assicurativo? Una stima l’aveva fatta Henri de Castries, ex ceo di Axa: «Un mondo più caldo di 2°C potrebbe ancora essere assicurabile, ma un mondo più caldo di 4°C sicuramente non sarebbe assicurabile». Le stime della scienza ci dicono che oggi siamo già a 1,2°C e che siamo nella traiettoria di un aumento di temperature di 2,7°C.

Al punto di non ritorno le compagnie assicurative smettono di vendere polizze, e aziende e famiglie si trovano più scoperte proprio quando ne avrebbero più bisogno. Bloomberg ha calcolato che nel 2022 le richieste al settore sono state globalmente di 120 miliardi di dollari, quanto il Pil di una grande economia emergente, il 50 per cento più alto della media del decennio precedente.

In Italia l’associazione Movimento consumatori aveva denunciato che la scorsa estate, dopo una lunga sequenza di eventi estremi, erano arrivate segnalazioni di cittadini che non erano più in grado di acquistare polizze, e che le compagnie avevano rivisto i massimali, facendo recuperare una frazione più bassa del valore del bene. A febbraio c’erano state proteste in trenta paesi sotto le sede di alcune delle più grandi compagnie assicurative, per protestare contro il loro ritiro da alcuni dei mercati più critici e per l’aumento dei costi.

Compagnie in fuga

Gli Stati Uniti sono un buon caso di studio sull’impatto della crisi climatica sul sistema assicurativo. Nel 2015 le assicurazioni erano andate in perdita sui risarcimenti da eventi estremi in tre stati, nel 2018 in dodici, nel 2020 in quindici, nel 2023 in diciotto.

I tre più vulnerabili, dove la fragilità delle compagnie di assicurazione sta già lasciando la popolazione scoperta nel momento di massimo bisogno, sono la California, dove il principale problema climatico è il fuoco degli incendi, la Florida e la Louisiana, dove invece il rischio viene soprattutto dall’acqua.

Negli ultimi quattro anni, in Florida il clima ha fatto fallire 15 aziende assicurative, lo Stato è subentrato con un fondo da 1 miliardo di dollari per non far scappare le altre, ma una decina ha già dichiarato che non è più in grado di vendere polizze contro uragani e allagamenti. AllState e State Farm, due delle più grandi d’America, hanno annunciato che non venderanno più polizze a case e condomini in California.

Secondo un rapporto di First Street Foundation, negli Usa ci sono 23,9 milioni di proprietà che rischiano di essere distrutte dal vento, 4,4 milioni dagli incendi e 12 milioni da alluvioni e allagamenti. Secondo lo studio, «già molte aziende private stanno marchiando intere aree come inassicurabili», e quella climatico-immobiliare è una bolla che rischia di fare danni all’economia americana quanto la crisi dei mutui sub-prime quindici anni fa, perché nel frattempo i prezzi degli immobili continuano a salire, anche nelle aree più pericolose.

La National Oceanic and Atmospheric Administration ha previsto che Miami sarà allagata quasi due mesi all’anno nel 2050, un orizzonte di tempo che la politica non calcola mai, ma chi compra una casa di solito sì. Eppure negli ultimi anni i prezzi delle case a Miami sono cresciuti del 27 per cento, in una città dove l’innalzamento del livello del mare minaccia 400 miliardi di dollari in proprietà immobiliare. Come si possa assicurare tutto questo è una delle grandi domande per il futuro, da Ravenna fino a Miami Beach.

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