- Questo è un nuovo appuntamento con Areale, la newsletter sul clima e l’ambiente di Domani.
- Questa settimana parliamo di parrucchiere per il clima, di negoziati che vanno così così (per ora), di digital twin della Terra e dell’oceano, e di diritti non umani.
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Buongiorno, persone che leggevate Areale anche quando la crisi climatica sembrava dormiente (non lo è da un bel po’, eh, però è un’illusione diffusa). Come state vivendo queste settimane di oppressione da caldo, temporali fugaci, paure ancestrali per l’acqua e debiti ecologici che sembrano arrivati al capolinea? Questa e-mail viene scritta per voi da Trento, dove sono venuto a fare un salto breve per salutare The Climate Route, la prima spedizione climatica italiana, progetto bello e coraggioso.
Intro: il clima, preso per i capelli
«In questo salone si parla dell’amore, della vita e di azione per il clima». È una piccola storia che mi è piaciuta tanto, l’ha raccontata il Sydney Morning Herald, quotidiano di una città che ha guidato una rivoluzione niente male, trasformando dal basso (insieme a Melbourne, a Brisbane, al Queensland) l’Australia dal cattivo climatico quasi per eccellenza degli anni di Scott Morrison a paese (potenzialmente) virtuoso, al quale guardare con ottimismo. Vedremo come andrà, ma torniamo al salone in questione, quello di Paloma Garcia, una parrucchiera che ha a cuore il futuro della vita umana su questa terra e che ha reso il suo negozio un posto dove – insieme a taglio, colore e messa in piega – puoi parlare di clima e ricavarne anche informazioni scientifiche rilevanti.
L’Australia nel 2019 è passata dalla teoria alla pratica del clima nuovo, incendiandosi: un continente in fiamme per mesi. La combustione ha provocato consapevolezza, un’onda che è passata anche attraverso le conversazioni minute, small talk come quello nel salon di Paloma Garcia ed è arrivata fino all’urna elettorale, e ci sta un collegamento, eccome se ci sta.
È una piccola storia di bolle scoppiate, di prospettive che escono fuori dal solito circuito chiuso di chi sa e sa sempre di più, mentre chi non sa è lasciato a se stesso, alla predazione degli idioti e alle prediche dei negazionisti. Perché poi la realtà arriva, in forma di incendi o di crisi idrica o di caldo insopportabile. E allora meglio prepararsi, e parlarne, anche dal parrucchiere.
Garcia non si è limitata a fare del suo salon un posto dove si può parlare allo stesso modo di sentimenti e Ipcc, ha anche provato a creare una piccola onda di parrucchiere e parrucchieri consapevoli, e così ha organizzato un seminario di formazione sulla crisi climatica per hair stylist. Lo hanno tenuto Lesley Hughes, scienziata del Climate Council, e Rebecca Huntley, autrice di How to talk about climate change in a way that makes a difference. Sono accorsi decine di professionisti delle forbici e dello spray, ne sono usciti con informazioni, dei cartoncini da lasciare ai clienti con fatti e numeri sul climate change, e scritte come «We want our hair hot, not our planet». Una di loro ha detto al Sydney Morning Herald: «Come parrucchiere non siamo qui per dire alla gente come votare, solo di fare attenzione alle decisioni che prendono», ed è esattamente tutto quello che conta e si chiede: fare attenzione. Il risultato (elettorale, politico, sociale) arriva di conseguenza.
Gemelli diversi (digitali)
Questa è una vicenda di mappa e territorio, intelligenza artificiale e dati, una storia che sarebbe piaciuta forse a Borges.
Partiamo da Ithaca, una college town nello stato di New York, Stati Uniti. Nel 2019 a Ithaca hanno deciso di decarbonizzare tutto entro il 2030. Entro il 2030 vuol dire: prestissimo. Così presto che – se ci riuscissero – Ithaca sarebbe la prima città al mondo a farcela (e quanto sarebbe singolare se fosse proprio un posto chiamato Ithaca? Quante metafore sul futuro-come-ritorno potremmo spendere?).
In ogni caso, anche se parliamo di una piccola comunità – 30mila persone – ci sono decisioni complesse da prendere, nonostante il budget non sia malvagio: 100 milioni di dollari. Ma il punto è come spenderli, a chi darli, a cosa dare la priorità. Come insegna il nostro Pnrr, tanti soldi possono diventare all’improvviso pochi, se spesi e pensati male.
E, per pensare bene i soldi, a Ithaca hanno deciso che la città aveva bisogno di dati. Molti dati. E anche di qualcosa in più che una montagna di dati. A Ithaca serviva un’altra Ithaca, completamente virtuale, dove sperimentare grazie al machine learning l’effetto di policy, spese, decisioni. Come nel glorioso SimCity, ma su scala, e con l’obiettivo di portare le cose nelle realtà. Prima testi in ambiente virtuale la combinazione degli effetti a catena delle tue possibili decisioni, poi quella che funziona meglio la implementi davvero, con soldi reali, per edifici reali e persone reali. Si chiamano «digital twin», gemelli digitali, quello di Ithaca è applicato all’obiettivo più ambizioso e vicino, ma ci stanno lavorando New York, Singapore, Helsinki. In Italia c’è un progetto pilota della città di Bologna con l’università e il Tecnopolo, dove tra poco verrà acceso il Centro di supercalcolo.
I gemelli digitali potrebbero essere un’eccellente arma segreta per usare in modo efficiente e visionario i dati allo scopo di mitigare la crisi climatica e adattarci, al punto che in cantiere ci sono progetti che fanno sembrare il digital twin di Ithaca una specie di casa di Lego. L’Unione europea, infatti, spera di completare per il 2024 la sua versione digitale dell’oceano, un doppio virtuale dove misurare gli effetti della crisi climatica, l’efficacia delle decisioni che potremmo prendere, con una risoluzione e una scalabilità che ne farebbero una piattaforma globale di cooperazione. Immaginate: tutta l’accademia del mondo a giocare e sperimentare in tempo reale i propri studi e idee su un modello virtuale, aperto, alla ricerca di quelle migliori.
Creare un modello virtuale di qualcosa di vasto e insondabile come l’oceano è qualcosa che travalica l’esperienza umana, è una forma radicale di apprendimento, un addomesticamento digitale che dà anche la misura di quanto lontano ci possa portare la potenza di calcolo che stiamo accumulando, se usata per obiettivi pubblici di cittadinanza (e non solo per venderci mutande, Stranger Things 4 e vacanze).
Il Digital twin of the ocean si nutrirebbe dei dati satellitari Copernicus, di quelli offerti dalle infrastrutture marine, dei sensori delle rompighiaccio, degli occhi di droni sottomarini; ha l’ambizioso obiettivo di trasformare dati grezzi in conoscenza aperta, che – nel discorso di presentazione che ne fece Ursula von der Leyen – dovrà essere a disposizione non solo di scienziati, ma anche di politici e cittadini. Del Digital twin of the ocean si parlerà in uno degli incontri sovranazionali più importanti di questo anno affollato, la Conferenza Onu sugli oceani che parte a Lisbona il 27 giugno e si chiude il 1 luglio.
Avremo tanti difetti, ma a noi umani non manca ambizione, e così l’Esa – l’Agenzia spaziale europea – sta lavorando a qualcosa di ancora più grande: il progetto si chiama Destination Earth e sarebbe un digital twin di tutto il nostro pianeta, con gli stessi obiettivi di Ithaca, Bologna o dell’oceano: aumentare la risoluzione di ciò che sappiamo del futuro e potenziare la nostra capacità di conoscere e prevedere, testare gli effetti delle politiche in modo il più possibile trasparente, anticipare angoli della crisi climatica che non siamo ancora in grado di vedere.
La Terra virtuale sarà divisa in sei sezioni: foreste, idrologia, Antartide, cibo, oceano e hotspot climatici. Irpi-Cnr si occupa della parte idrologia e mi hanno spiegato una cosa interessante: è più facile (relativamente più facile) accumulare la potenza di calcolo per raggiungere un risultato di questa scala che possa replicare i sistemi fisici della Terra. La parte più complicata è un’altra: quando nel gemello digitale devi iniziare a prevedere anche i comportamenti delle persone. Lì non c’è (ancora) supercalcolo che tenga.
La dura vita dei negoziati: la guerra fredda del clima
La guerra russa in Ucraina e le relative crisi dell’energia e del cibo stanno facendo vittime collaterali delle quali ci stiamo occupando troppo poco: i negoziati per il clima e la biodiversità. Le due linee di dialogo sovranazionale (seguite da due filiere di Cop diverse) stanno mostrando preoccupanti segnali di stallo. Alla Cop27 per il clima che si terrà a novembre in Egitto si rischia la spaccatura globale definitiva tra blocchi, una specie di guerra fredda (o calda) del clima. La Cop15 è da tempo impegnata in negoziati per produrre un accordo in stile Parigi allo scopo di contrastare la sesta estinzione di massa e la distruzione degli ecosistemi. Se ne parlerà a dicembre a Montreal, in Canada.
Per il clima, l’appuntamento intermedio di Bonn si è risolto in un gioco di veti incrociati e conflitti che ha avuto almeno una funzione: chiarire meglio agli osservatori quale sarà il terreno di gioco su cui scornarsi a Sharm el-Sheik nel mese di novembre. Non c’è più fiducia tra i blocchi (paesi ricchi vs paesi poveri, con tutte le sfumature intermedie) ed è diventato difficile anche solo capire da chi sono (o dovrebbero essere) composti questi blocchi. Come se prima di entrare in campo non sapessimo ancora con certezza se un giocatore sta in una squadra o in un’altra. E il tema è centrale perché riguarda anche il più grande emettitore del mondo: la Cina.
Lo status quo dell’Unfccc (la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici) la posiziona ancora lì dove era nel 1992 quando la convenzione fu firmata: tra i paesi in via di sviluppo. È da questa posizione geopolitica che la Cina amministra la sua rendita e conduce i suoi negoziati per il clima, nello stesso blocco di Vanuatu o dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno provato a ridefinire questo schieramento, ma a Bonn sono stati respinti con perdite.
Il punto è che degli Stati Uniti, nonostante la diplomazia di John Kerry e Joe Biden, dal punto di vista climatico non si fida più nessuno, e lo stallo di Bonn lo ha confermato. Non sono più il principale emettitore, ma saranno per sempre i principali responsabili storici dell’aumento di gas serra nell’atmosfera. E questo nodo rimane sotto la forma del doloroso conflitto per il riconoscimento del loss and damage, cioè la domanda sempre più pressante su: chi pagherà tutti questi danni?
Da un lato gli Usa non ne vogliono sapere, dall’altro sono stati messi – proprio loro, con Singapore – a capo di questo specifico negoziato, chiamato Glasgow Dialogue. Non un gesto di cortesia verso i paesi terrorizzati dalla crisi climatica. Lo ha detto con una sintesi efficace Harjeet Singh, senior advisor di Climate action network: «Il sistema ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta». È per questo motivo che decine di piccoli paesi preferiscono ancora nascondersi sotto la bandiera della Cina come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo piuttosto che affidarsi agli Stati Uniti, che stanno bloccando da anni il riconoscimento del loro diritti a essere aiutati.
I negoziati per salvare la biodiversità sono stati così a lungo in difficoltà che la notizia di una data e di una sede finalmente certe per la conferenza finale ha generato un’onda di entusiasmo. L’asticella insomma si è abbassata. La Cop15 si sarebbe dovuta tenere a Kunming, in Cina, ma dopo due rinvii causa pandemia, e una marea di tempo perso, alla fine Pechino ha riconosciuto di non essere in grado di ospitare l’evento e ha dovuto rinunciare alla possibilità di usare il futuro, eventuale accordo come vetrina per la visione sulla «civiltà ecologica» cinese di Xi Jinping (sarà comunque la Cina a guidare il processo, anche in Canada).
Domenica 26 giugno si chiude un altro round di negoziati a Nairoibi, l’ultimo per avere una bozza da portare al round finale di Cop15, a Montreal, in Canada, tra il 5 e il 17 dicembre, a poche settimane dalla fine di Cop27 sul clima in Egitto. Nel giro di poco più di un mese, alla fine dell’anno, avremo probabilmente una visione più chiara e lucida di cosa è rimasto della protezione del clima e della biodiversità dopo la guerra di Putin.
Happy in chains
Una notizia veloce, su un tema che abbiamo trattato altre volte qui su Areale, metà newsletter sul clima, metà bestiario del non umano in tutte le sue forme. Happy, l’elefante asiatico che vive nello zoo del Bronx a New York, ha perso. Rimarrà custodita (detenuta, prigioniera, scegliete voi la parola) lì, non potrà andare in un santuario per vivere gli ultimi anni della sua vita. Così ha deciso la Corte d’appello di New York, con un voto 5-2 a favore dello zoo, che può così tenersi il suo elefante, e contro il Non Human Rights Project, che aveva fatto di Happy il più importante e innovativo caso sui diritti animali mai discusso negli Stati Uniti.
La tesi degli avvocati difensori di Happy era che l’elefante è una persona, ha dei sentimenti, una memoria, una socialità e per di più si vede e riconosce in uno specchio, quindi deve godere dei diritti che hanno le persone, compreso l’habeas corpus, che protegge tutti indistintamente contro le detenzioni ingiuste, comprese – secondo i legali di Happy – quelle che prevedono l’essere catturati nell’ecosistema dove si dovrebbe vivere, ricevere il nome di uno dei sette nani (Happy si chiama Happy come Gongolo, erano sette elefanti e ognuno aveva un nome dei sette nani Disney), attraversare mezzo mondo in una gabbia e vivere tutta la vita in uno zoo del Bronx. Il tribunale di New York ha invece deciso che no: forse Happy non è umana e quindi non ha diritto a un diritto umano.
Il caso, più che legale, ha sfumature quasi teologiche e millenariste: uno dei motivi addotti dal tribunale per questa decisione (che significativamente non è stata presa all’unanimità) è che un voto a favore di Happy avrebbe destabilizzato il rapporto tra umani e animali negli Usa. Troppi effetti per un solo elefante.
In ogni caso, la sentenza nega che Happy sia una cosa, le riconosce intelligenza e diritto al benessere, alla cura e alla compassione, ma non per questo motivo l’accesso ai diritti umani. Siamo sulla linea di un altro caso simile, sempre portato avanti da Non Human Rights Projects, su uno scimpanzé, che si concluse così: «While it may be arguable that a chimpanzee is not a “person”, there is no doubt that it is not merely a thing». Non una persona, ma nemmeno propriamente una cosa.
Per questa settimana è tutto, ci sentiamo la prossima, o ci vediamo a Modena, se passate al Festival di Domani: ci sarà anche io, palesatevi, e ricordatevi: se il vostro parrucchiere/a non vi parla di clima, tocca a voi parlarne a lui/lei.
Ciao, scrivetemi se volete a ferdinando.cotugno@gmail.com, oppure potete scrivere al giornale, all’indirizzo lettori@editorialedomani.it.
Alla prossima!
Ferdinando Cotugno
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