Gli attacchi a Green Deal e transizione ecologica sono basati su motivazioni extra-scientifiche. I costi delle non azioni dovrebbero essere messi sul tavolo e confrontati ai costi delle azioni concrete, ma questo non fa ancora parte della nostra cultura
Nella recente campagna per le elezioni europee e in questi giorni segnati dalle controversie sulla definizione delle cariche europee, il Green Deal e la transizione ecologica sono stati e sono al centro dell’attenzione. Da notare subito che le posizioni pro transizione solitamente usano dati scientifici a supporto, mentre quelle contrarie usano dati extrascientifici. Le prime si sostengono su un ragionamento sistemico e su interessi collettivi attuali e futuri, le seconde su interessi economici, presentati come intoccabili e generali.
Chi supporta e chi critica
Che le scelte politiche non dipendano solo dalla conoscenza scientifica è cosa risaputa e quotidianamente verificabile nei fatti, ma la questione chiave è che, mentre si sottovalutano le prove scientifiche sui danni conclamati da crisi climatica e inquinamento, non si spiegano con chiarezza le altre motivazioni usate per prendere le decisioni.
Nel governo politico della cosa pubblica per svariati motivi si preferiscono gli annunci alle spiegazioni, soprattutto perché discutere di interessi economici insieme a quelli ambientali e sanitari rende necessario chiarire quali sono i soggetti e gli interessi coinvolti, e chi si vuole proteggere o favorire.
Meglio dunque – per chi governa – mantenere la situazione opaca: un coacervo di interessi economici particolari e collettivi, diritti individuali e generali, rischi e benefici, mescolati tra loro fino a rendere inestricabili le relazioni tra i soggetti in gioco, le responsabilità e il dovere di dare conto dei fatti. Nonostante l’imbroglio della matassa l’obiettivo appare invece chiaro: tirare diritti su decisioni già prese, limitando il più possibile le interferenze.
Negazione e inazione
A parte i calcoli strumentali di opportunità politica, le due strade principali usate per prendere decisioni sulla base di fattori extrascientifici sono da una parte le cosiddette “ragioni di stato” o “necessità strategiche” di ordine superiore, dall’altra le critiche all’incertezza della scienza.
La prima motivazione è la più “confortevole” perché più facile da sostenere, magari supportata da dati tutti da dimostrare; e gli esempi sarebbero infiniti: la strategicità dell’ex Ilva a Taranto è stata smentita più volte dai dati di fatto, e l’epilogo appare segnato; il rigassificatore collocato a Piombino in un anno ha prodotto meno della metà del gas preannunciato con toni roboanti e a costi ben superiori a quelli delle fonti rinnovabili; il perdurante vincolo alle fonti fossili e via di questo passo.
La seconda attitudine, quella dei mercanti di incertezze, si affida a meccanismi più sottili: si continuano a chiedere prove e calcoli per dimostrare il nesso di causalità tra perturbazioni ambientali ed effetti sulla salute, mentre le conoscenze sono poderose e inconfutabili. È il caso dei molti inquinanti per i quali il complesso delle conoscenze (detto anche “legge di copertura” della conoscenza scientifica) è già completo, robusto e accettato dalla comunità scientifica internazionale.
Si tratta di diversi inquinanti atmosferici riconosciuti tossici e/o cancerogeni, con effetti conclamati su mortalità prematura, malattie cardiovascolari, respiratorie, neurologiche, diabete, e molte altre se ne stanno aggiungendo col progredire degli studi.
I tribunali
Nel procedimento penale si richiede la chiara dimostrazione del nesso tra causa ed effetto sulla salute “oltre ogni ragionevole dubbio”, per individuare la colpa e punirla; nel processo civile il richiamo è alla “probabilità prevalente”, ma la politica dovrebbe essere molto meno esigente, in virtù della finalità sociale a vantaggio degli interessi collettivi e delle persone più svantaggiate.
Infatti, quando le conoscenze sono elevate, come è nel caso del ruolo di tanti inquinanti ambientali sulla salute (non solo umana), la politica, a livello legislativo e di governo, dovrebbe considerarle sufficienti per definire azioni e misure protettive, e meglio ancora preventive.
I fatti spesso non vanno in questa direzione, le ragioni extrascientifiche superano quelle scientifiche e le domande affollano la mente. Quale etica della responsabilità può mai sorreggere le “non scelte” di protezione nei confronti di persone che respirano inquinanti certamente tossici e/o cancerogeni?
Quale intelligenza umana (potrà aiutarci quella artificiale?) non si prende cura della salute dei propri figli?
In questi casi i costi delle non azioni dovrebbero essere messi sul tavolo e confrontati ai costi previsti per azioni concrete, ma questo non fa ancora parte della nostra cultura, che manca di una visione e di una responsabilità proiettata nel futuro, e così gli svantaggi dei cittadini che vivono in “zone di sacrificio” (definizione dell’Onu includente i diritti umani) vengono trasmessi alle generazioni successive.
Responsabilità e doveri
L’attenzione alle future generazioni è entrata anche nella Costituzione, che all’art.9 recita: «Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni». Ma occorre aumentare l’impegno per renderla viva, contrastando l’andamento insensato e deprecabile a tutelare solo gli interessi del proprio status quo.
Anche di fronte all’evidenza delle prove, le affermazioni più utilizzate sono “situazione complessa”, “dipende da tanti altri fattori”, “non è possibile fare di più”, “non si può derogare dagli interessi economici”, tipiche in scenari di inquinamento diffuso. Ciò succede ad esempio in Pianura Padana, dove la stragrande maggioranza della popolazione vive respirando concentrazioni di particolato aerodisperso da 3 a 4 volte più alte dei limiti dell’Organizzazione mondiale della sanità, protettivi per la salute, e il doppio anche di quelli adottati di recente dall'Unione europea, che sono meno protettivi.
In aree più circoscritte, caratterizzate da fonti inquinanti locali, gli interventi di risanamento e miglioramento sarebbero fattibili ma non si realizzano, accampando motivi extrascientifici non chiariti, che tipicamente non tengono conto delle fragilità delle comunità locali, esacerbando le situazioni di rischio e di ingiustizia ambientale.
Il dovere di dare conto delle decisioni prese o evitate (accountability) rimane lettera morta o nel migliore dei casi si ferma al presente.
Evitare il peggio
Il miglioramento della situazione ambientale e sanitaria si può ottenere con interventi finalizzati a mitigare gli impatti già esistenti e a evitare impatti negativi futuri. Fanno parte della prima tipologia le bonifiche dei siti inquinati, purtroppo ferme nella maggioranza dei casi, e la mitigazione delle pressioni esercitate da diverse fonti, dall’agricoltura ai trasporti, dalle industrie alle abitudini di consumo, su cui sono stati scritti fiumi di inchiostro.
Ma è sulla prevenzione di azioni dannose prima che si verifichino che occorrerebbe un atteggiamento più responsabile, basato sulle notevoli capacità di previsione di cui disponiamo, per decidere le azioni necessarie. È inequivocabile il caso della crisi climatica, in cui le previsioni ormai allineate su 0,26 gradi di aumento di temperatura a decennio fanno prevedere scenari che variano dal brutto al pessimo, una situazione che richiede da subito azioni sia di contenimento che di prevenzione che siano esenti da egoismo generazionale.
Presente e futuro
Pensando allo sviluppo industriale è evidente la differenza tra sostituire impianti vecchi con impianti nuovi meno inquinanti o meglio non inquinanti (alimentati con fonti energetiche rinnovabili) rispetto a installare nuovi impianti basati sull’uso di combustibili fossili, in particolare in aree già inquinate. In questo caso si configura un paradosso: considerare accettabile una goccia aggiuntiva anche se si aggiunge a un bicchiere già pieno.
Si tratta di situazioni frequenti proprio in aree come la Pianura Padana, che pongono di fronte esigenze imprenditoriali che considerano accettabile l’aggiunta di una goccia di inquinamento in più contro esigenze collettive che considerano già inaccettabile la situazione esistente, e quindi ancor di più la goccia aggiuntiva.
In questi casi il richiamo all’accettabilità del rischio non aiuta affatto a comporre i diversi interessi, semplicemente perché si fa riferimento a due diversi rischi: quello legato alla componente aggiuntiva non può essere accettato se separato dal rischio già esistente, che richiederebbe un intervento di riduzione ancora prima di parlare di nuovi apporti. Facile da capire ma difficile da digerire.
Ci sono metodi scientifici per calcolare sia l’impatto della goccia in più sia del contenuto già presente nel bicchiere, ma anche di scenari tesi a svuotare il bicchiere: sono questi ultimi a essere cruciali per la prevenzione, ma hanno bisogno che si assuma uno sguardo rivolto al futuro. Continuare a osservare e limitarsi a tutelare il presente è in contrasto crescente con l’interesse delle future generazioni, con buona pace per le affermazioni propagandistiche o di maniera e, purtroppo, anche per l’ottimo art. 9 della nostra impareggiabile Costituzione.
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