- Questo è il numero 112 di Areale, la newsletter di clima e ambiente a cura di Ferdinando Cotugno.
- Questa settimana parliamo di primarie del Pd, della siccità globale, della sfida di Vanuatu all’Onu e di un rubinetto fossile da chiudere al più presto.
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Questo inverno il New York Marine Rescue Center di Riverhead, stato di New York, Usa, è stato invaso da tartarughe marine in difficoltà, alcune in agonia. La specie sta cambiando abitudini, sta espandendo il suo areale verso nord, come probabilmente ogni cosa vivente dovrà fare, nel corso di questo secolo. Solo che in acque così settentrionali, d’inverno, può arrivare un’ondata di freddo improvvisa. E così le tartarughe settentrionalizzate dell’Atlantico stanno finendo spiaggiate in numeri mai visti e sempre con le stesse condizioni di base: ipotermia.
Intanto, una ricerca sulle diete dei condor di una riserva naturale sulle Ande peruviane ha offerto questo risultato: plastica nel 100 per cento dei campioni. Il condor è un animale necrofago, si nutre quasi solo di carcasse, quindi è un animale sondaggio su cosa c’è negli ecosistemi e negli ecosistemi c’è soprattutto plastica: ogni anno ne viene prodotta più dell’intero peso della specie umana.
Questo è l’episodio numero 112 di Areale, scritto in una fredda mattina milanese prima dello sciopero del clima, del quale, direi, parliamo la settimana prossima (e se hai voglia di mandarmi foto, commenti, cartelli, striscioni o varie idee sovversive, io, come sempre, sono qui e la mail, come sempre, la trovi in fondo). Intanto auguri agli otto nuovi portavoce di Fridays for Future, in bocca al lupo, buon lavoro.
La lunga marcia di Elly Schlein (e perché ci riguarda)
La vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd è una storia di prime volte. È la prima volta che una donna si trova a guidare un grande partito di sinistra in Italia. È la prima volta che alle primarie Pd il voto dei gazebo – cioè quello di elettori e simpatizzanti – batte quello degli iscritti: i partiti non sono di nessuno, sono di tutti, si possono rivendicare. È anche la prima volta che una persona più giovane di me guida il Pd, ed è soprattutto la prima volta che una persona nata negli anni Ottanta guida il Pd. È la cosa che preferisco di Schlein: è una nostra contemporanea, è una persona venuta dal presente.
Con tutte le complessità del caso, perché Schlein viene da un presente specifico e privilegiato. Ma è comunque il presente, non è arrivata alla guida del Pd in quota di un’eredità passata, che sia comunista, popolare, democristiana, liberista. Non è l’ultimo esemplare di una famiglia del Novecento, è il primo esemplare di una famiglia politica del secolo che attualmente siamo costretti ad abitare. Problemi grandi, partiti grandi. Problemi del presente, persone del presente.
Ho sentito, nei giorni che hanno preceduto le primarie, vibrazioni di qualcosa che somigliava a entusiasmo. L’entusiasmo è una condizione ancora più rara della speranza, per una persona di sinistra e ambientalista in Italia. Come direbbe Kurt Vonnegut, quando siete politicamente entusiasti fateci caso. Quando era stata l’ultima volta?
È un insieme di buone notizie inattese, senza idealizzazioni, senza proiezioni, siamo persone grandi e di mondo, ci sono in egual misura motivi per coltivare speranza e motivi per coltivare scetticismo. Perché il Pd ha mostrato anticorpi democratici che nessuna forza politica ha in Italia, e va riconosciuto, ma è pur sempre il Pd, gli stessi apparati, le stesse logiche e le stesse correnti. A loro l’onere della prova. (E infatti anche i portavoce Fridays for Future sono scettici: si fidano di Schlein, non del Pd).
Elly Schlein ha vinto con una mozione che parte dalla giustizia climatica, ma in quella mozione non c’è ancora scritto cosa voglia dire giustizia climatica per un partito politico nazionale, per una forza che ha il dovere di coltivare una vocazione maggioritaria. (Vocazione maggioritaria è una formula invecchiata male e un po’ burocratica che possiamo tradurre così: impatto sulla realtà materiale della vita delle persone, che poi è l’unica cosa per cui esiste la politica).
Qui, in questo cantiere di significato, c’è un’opportunità per i movimenti. Per capire cosa possa essere la giustizia climatica per la politica italiana Schlein avrà bisogno di tutti quelli che su e con questo tema si sono arrovellati per anni. È un’opportunità irripetibile. Il suo compito sarà aprirsi alla società, perché un partito, per quanto radicato e vasto come il Pd, non ha al suo interno le forze intellettuali per un compito così complesso, ma oggi ha almeno gli strumenti per andarle a cercare.
Allargando il discorso, c’è un’Italia che la transizione ecologica la sta facendo da anni, non guidata o presidiata da nessuno (e forse anche in virtù di questo vuoto). Quell’Italia potrebbe aver trovato un interlocutore. Schlein non ha bisogno dei miei suggerimenti, ma un buon modo per iniziare la lunga traversata nel deserto sarebbe mandare la sua nuova segreteria a girare l’Italia di distretti, delle fabbriche recuperate, dell’agro-ecologia, dei comitati di ogni tipo, e prendere appunti, moltissimi appunti. Molte cose andranno immaginate da zero, altre vanno semplicemente copiate e aggregate, l’Italia è piena di buone idee in attesa di essere rubate.
E la traversata nel deserto ha due grandi appuntamenti, tappe di metà percorso fondamentali per un aspirante Pd a trazione ecologista: la Cop28 di Dubai e le elezioni europee del 2024. Le Cop sono state finora ignorate dal governo Meloni e questo lascia una prateria politica per una delegazione della segreteria Schlein, che dovrebbe prendere l’evento di Dubai a novembre come un master, per capire davvero cosa significa quella formula, giustizia climatica, nella sua scala originaria, quella globale.
E la trattativa retrograda e provinciale del ministero dell’Ambiente per regalare qualche anno a una tecnologia senza futuro come l’auto a benzina è la prova che le elezioni europee saranno uno dei momenti più importanti della storia politica di questi decenni. Se viene meno l’Europa, per l’effetto di una maggioranza di negazionisti funzionali, viene meno tutto. Per quell’appuntamento servirà una specie di magia, trasformare la giustizia climatica in un programma politico. È un lavoro che comincia oggi.
La scala globale della siccità
Dobbiamo sempre ricordarci di guardare la scala globale della crisi climatica. La siccità non è l’episodio di una o due stagioni sfortunate in Italia, ma sta diventando la condizione umana globale. In questi primi mesi del 2023 il mondo sembra avvolto a ogni latitudine da una crisi idrica permanente. Il rapporto Drought in Numbers 2022 delle Nazioni Unite ha confermato come la siccità sia la nuova normalità globale.
Il 15 per cento dei disastri naturali degli ultimi cinquant’anni sono stati legati alla scarsità d’acqua, che ha fatto già oltre 600mila vittime ed è costata 124 miliardi di dollari. Ogni anno si perdono 12 milioni di ettari di terra mangiati dalla siccità estrema e dalla desertificazione.
In questo momento 2,3 miliardi di persone in ogni continente sono in stress idrico, quindi hanno o potrebbero avere a breve problemi a trovare acqua a sufficienza per i propri bisogni. L’Africa è il continente più in difficoltà: nell’ultimo secolo il 44 per cento delle siccità estreme è stato sul suo territorio, ma è l’Europa l’area dove la scarsità d’acqua cresce più velocemente.
Oggi la siccità minaccia il 15 per cento dei suoli europei e il 17 per cento della popolazione. Viviamo su un continente climaticamente fragile, prima lo capiamo, meglio è.
E c’è un paese che forse è più in difficoltà dell’Italia: la Francia ha avuto l’inverno più asciutto della sua storia, ha battuto il record di giorni consecutivi senza precipitazioni. Il ministro della Transizione ecologica francese ha detto: «È una catastrofe». Un disastro per l’agricoltura e per la produzione di energia: già nel 2022 la Francia per la prima volta era diventata importatrice netta di energia (altro che affidabilità del nucleare). Sarà così anche nel 2023.
Scala globale, dicevamo. Nel sud-ovest degli Usa siamo al ventitreesimo anno di siccità, un ventenne del Colorado non ha mai conosciuto un mondo che non fosse in stress idrico e non ha le prospettive per uscirne a breve: secondo una ricerca pubblicata su Nature Climate Change ci sono le condizioni perché questa situazione rimanga tale fino al 2030.
Lake Powell, il secondo bacino idrico più grande degli Usa, è ai minimi di sempre. Gli studi sugli anelli degli alberi hanno rivelato che erano 1.200 anni che su quel territorio non c’era così poca acqua. Molti dei bacini che alimentano vita e agricoltura oltre il 100esimo meridiano, quello che separa l’est dall’ovest americano, sono ai minimi storici e nemmeno le precipitazioni anomale di questo inverno in California hanno attenuato la crisi.
La situazione più preoccupante è oggi in Texas e nelle Grandi Pianure. Più a sud, in Cile, la siccità è al dodicesimo anno, non sono a rischio solo le coltivazioni di avocado, ma anche le miniere di litio e non cresce nemmeno più l’erba per pascolare il bestiame. L’accesso all’acqua per più di metà dei cileni è a rischio.
In questa mappa globale del rischio idrico, però, la situazione peggiore è nel corno d’Africa, sia per le condizioni meteo sempre più anomale sia per le vulnerabilità sociali. In Kenya, Etiopia, Somalia e parti dell’Uganda la stagione delle piogge rischia di saltare per il sesto anno di fila, mettendo a rischio raccolti e sopravvivenza del bestiame.
Secondo il rapporto Drought in Numbers la siccità durante la crisi climatica sta, come dicevamo, diventando una condizione umana alla quale sarà difficile sottrarsi, a ogni latitudine: 7,5 abitanti della Terra su 10 – tra 4,8 e 5,7 miliardi di persone – entro metà secolo soffriranno scarsità d’acqua per almeno un mese all’anno. Una situazione che rischia di provocare esodi con proporzioni mai viste: migrazioni interne e internazionali che già tra un decennio metteranno in movimento 700 milioni di persone.
La chance di Vanuatu
Ci sono voluti anni di lavoro e di studio, un processo partito da un gruppo di studenti spaventati e arrabbiati (la coalizione Pacific island students fighting climate change), ma è pronta la bozza da presentare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per valutare l’inclusione dei danni della crisi climatica tra i crimini che la Corte internazionale di giustizia dell’Aia può valutare di perseguire.
C’è il testo, non c’è ancora la data per il voto, sarà a marzo, soprattutto c’è un consenso politico ampio e trasversale ai continenti, ai paesi, alle economie: 105 paesi hanno deciso di appoggiare la richiesta (c’è anche l’Italia).
Nello specifico, quella che lo stato di Vanuatu, un piccolo arcipelago del Pacifico, presenterà all’Onu è la richiesta di un parere della Corte di giustizia. La domanda: i paesi sono obbligati da un punto di vista legale ad agire contro la crisi climatica per proteggere i membri più vulnerabili della comunità internazionale (come Vanuatu, appunto) e le generazioni future? E quali sono questi obblighi? E che sanzioni dovrebbero essere inflitte a chi viola questi obblighi, i grandi emettitori pubblici e privati del passato e del futuro?
Sono temi enormi, innanzitutto da una prospettiva morale e filosofica. I pareri della Corte non sono vincolanti, ma le prospettive politiche che si aprirebbero sono incalcolabili.
La risoluzione non aggira l’accordo di Parigi e tutto il processo delle Cop, è anzi un modo per innovare, integrare e rafforzare quello che succede all’interno del percorso della Convenzione Onu sul cambiamento climatico (Unfccc), che negli ultimi anni ha mostrato una serie di difficoltà a essere efficace, anche (forse soprattutto) per la mancanza di qualsiasi strumento sanzionatorio.
A sostegno dell’iniziativa della piccolissima Vanuatu (319mila abitanti) ci sono 105 paesi, a partire da un piccolo gruppo di sponsor (per l’Europa c’erano il Portogallo e la Romania) e una coalizione di oltre 1.700 organizzazioni della società civile. Per portare il tema dell’Assemblea generale dell’Onu alla Corte dell’Aia servirà una maggioranza semplice. Ne riparleremo.
Intanto, per ricordarci che si tratta di questioni reali e presenti, Vanuatu è in stato di emergenza per l’arrivo di due cicloni consecutivi, Kevin e Judy, una circostanza mai vista.
Chiudere il rubinetto al fossile
Dal 6 al 9 marzo l’Ocse si riunisce a Parigi per un negoziato decisivo per le sorti della crisi climatica: discutere le procedure e le regole per allineare la finanza pubblica legata alle esportazioni agli obiettivi dell’accordo di Parigi.
Non c’è verso di contenere l’aumento delle temperature al di sotto di parametri sostenibili per la vita umana senza bloccare il fiume di risorse pubbliche che ancora oggi sostengono la produzione di combustibili fossili, violando la raccomandazione centrale fissata dalla scienza: stop a nuove estrazioni di petrolio, gas e carbone.
Gli impegni multilaterali andrebbero già in quella direzione: alla Cop26 di Glasgow diversi paesi industrializzati e membri dell’Ocse, tra cui (all’ultimo momento e in modo piuttosto rocambolesco) l’Italia del governo Draghi, avevano aderito a una dichiarazione per fermare il sostegno pubblico all’apertura di nuovi giacimenti fuori dai propri confini.
Il problema è che quell’impegno doveva diventare operativo a fine 2022 ma per molti firmatari è rimasto sostanzialmente sulla carta. L’incontro di questa settimana all’Ocse è decisivo per dare un seguito a quella firma e rilanciare lo stop ai finanziamenti pubblici all’estrazione di fonti fossili, ed è per questo che 175 organizzazioni della società civile da 46 paesi diversi (tra cui Recommon, Greenpeace, Friends of the Earth, Oil Change International) hanno firmato una petizione per chiedere che quell’impegno diventi concreto e che venga attuato come previsto.
Il ganglo decisivo di tutto il meccanismo, il rubinetto di finanza pubblica fossile da chiudere, sono le cosiddette ECAs, le agenzie di credito all’esportazione. Quelle dei paesi del G20 ancora oggi sostengono lo sviluppo dei combustibili fossili nocivi per il clima sette volte più di quanto abbiano fatto con l’energia pulita.
Nell’ultimo biennio sono stati 34 miliardi di dollari per le fonti di energia che causano la crisi climatica, di cui il 90 per cento destinato a petrolio e gas, contro 4,7 miliardi di dollari destinati alle rinnovabili.
Grazie a questo flusso di risorse e potere di spesa, le agenzie per il credito alle esportazioni hanno una grande capacità di indirizzare le scelte energetiche dei paesi e dei mercati, in forma di prestiti, garanzie, polizze assicurative, solo che finora hanno usato questo potere sempre a difesa dello status quo energetico. Oggi il fossile sarebbe molto in difficoltà senza il supporto di queste agenzie di credito all’esportazione. Senza i loro strumenti, sviluppare nuovi progetti per un’attività costosa, rischiosa e dal futuro a lungo termine incerto come l’estrazione di gas, carbone e petrolio semplicemente non sarebbe più possibile dal punto di vista finanziario. È per questo che la pressione della società è rivolta alla chiusura di questo rubinetto e all’incontro di Parigi dell’Ocse.
Due anni fa l’impegno (non vincolante) preso alla Cop26 di Glasgow era stato presentato come uno dei risultati più significativi di quella conferenza Onu. Da allora i firmatari sono andati avanti in ordine sparso con le proprie policy finanziarie ed energetiche. Alcuni paesi hanno iniziato a rispettarlo in modo solido (Regno Unito, Francia, Canada, Finlandia, Svezia, Danimarca e Nuova Zelanda), altri hanno implementato la dichiarazione con politiche deboli: Olanda, Spagna, Belgio.
Ci sono tre paesi per i quali è come se quella dichiarazione non fosse mai stata firmata: Stati Uniti, Germania e Italia. E poi ci sono quelli che non avevano aderito alla dichiarazione di Cop26 e non hanno dato segno di volerlo fare dopo.
Per il nostro paese il rubinetto di risorse verso il fossile da chiudere è quello di Sace, l’agenzia di credito controllata dal ministero dell’Economia e delle finanze. Attraverso Sace l’Italia è tra i primi finanziatori pubblici europei di oil & gas, grazie ai suoi strumenti finanziari è stato possibile sviluppare operazioni in Artico russo ed estrazioni di gas liquefatto da un paese in difficoltà ecologica e sociale come il Mozambico.
L’Italia del governo Meloni non ha fatto passati avanti per implementare l’impegno preso a Glasgow, è in ritardo di due mesi rispetto alla scadenza del 2022 e non ha dato segnali di volerlo attuare. Come spiega Simone Ogno di ReCommon: «Ora siamo costretti a sopportare che Sace presieda il Gruppo di lavoro dell’Ocse sulle ECAs e di conseguenza il prossimo round negoziale sulle restrizioni a petrolio e gas. L’Italia e Sace devono porre fine a questa farsa una volta per tutte, implementando la Dichiarazione di Glasgow e facilitando i negoziati all’Ocse».
Per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui, buon fine settimana, se hai voglia di scrivermi, l’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com.
Momento bacheca: oggi alle 16 in Piazzale Lugano a Milano le associazioni che da più di un anno chiedono una pista ciclabile sul pericoloso ponte della Ghisolfa si ritroveranno per formare una ciclabile umana e spingere il comune a non procrastinare oltre.
Venerdì 10 marzo alle 17.30 sarò a BookPride, sempre a Milano, con Ci sarà un bel clima, Ultima generazione e Fridays for Future per parlare di attivismo, clima e disobbedienza. A presto!
Ferdinando Cotugno
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