Le nuove relazioni di potere determinate dal crollo di prezzo e domanda si inseriscono nell’ambirt della rivoluzione energetica avviata con la produzione delle nuove fonti rinnovabili
- Il costo del solare è sceso a 3 centesimi di dollaro per kilowatt-ora, nei Paesi del Golfo, inferiore a tutte le altre fonti, fossili e nucleare inclusi.
- In Arabia Saudita e Oman le aste recenti per la produzione di energia eolica negli impianti di Dumat Al Jandal sono state aggiudicate per circa 2,5 centesimi di dollaro il kilowatt-ora: un prezzo assai competitivo, anche per paesi dove permangono sussidi consistenti all’uso di combustibili fossili.
- In questo quadro in movimento il mondo delle fonti rinnovabili apre una strada nuova di democrazia potenziale, dove l’Africa e larghe regioni del pianeta potranno trovare fonti di energia autonome.
L’incertezza domina il mondo del petrolio. Dietro le imprese del settore che si riorganizzano si svela il gioco di una partita politica di lungo periodo, che alla fine porterà tutti i giocatori a partecipare al grande confronto storico che segna questo secolo: il passaggio di consegne della egemonia economica dagli Stati Uniti alla Cina o, più auspicabile, dagli Stati Uniti a un mondo multipolare, nel quale l’Ue inizierà ad avere un ruolo. Il petrolio è un tassello centrale.
Questa incertezza si riflette nella volatilità del prezzo che muove la speculazione e colpisce l’industria. All’annuncio del contagio di Trump, positivo al Covid 19, il petrolio ha reagito subito: è sceso sotto la soglia dei 40 dollari al barile, appena riconquistata, ma ancora inferiore al valore sostenibile per molti Paesi produttori e per le imprese del settore, incluse le più dinamiche dello shale oil statunitense, il petrolio estratto dalle rocce.
L’Iran resiste
L’incertezza sull’evolversi della pandemia si ripercuote di nuovo, violentemente, sulla domanda di petrolio, mentre il mercato si aspetta ancora un aumento dell’offerta. E’ alle porte la fine dei tagli alla produzione di Emirati Arabi e Arabia Saudita e le riserve dei Paesi del Golfo sono oggi al limite della capienza.
Le sanzioni imposte all’Iran non hanno sortito l’effetto desiderato; dietro i dati ufficiali appena pubblicati dall’Iea, che mostrano una riduzione consistente della produzione iraniana (-1.3 milioni di barili al giorno nel 2019), l’Iran ha continuato a produrre e a vendere sottobanco nella regione, alla Cina in primo luogo e persino all’Europa, ad esempio all’Italia.
La produzione di Iraq e Brasile è di nuovo in crescita. Le imprese americane hanno accusato la sofferenza di un prezzo sceso a livelli insostenibili, che ha lasciato molte vittime sul terreno. Per citare le maggiori perdite, dopo la Whiting Petroleum Co., è stata la volta del gigante Chesapeake, seconda solo a Exxon Mobil e impresa simbolo del successo dello shale statunitense, che ha portato i libri in tribunale nel giugno di quest’anno.
In modo meno drammatico e inatteso, si ripete oggi lo scenario di aprile 2020, quando al crollo della domanda di petrolio (-8 per cento) per il blocco delle attività e dei trasporti ha corrisposto l’aumento dell’offerta delle imprese statunitensi di shale oil che ha più che compensato la riduzione dell’Opec.
Nella logica del contrasto tra potenze e di un oligopolio che si sgretola, si deve leggere anche la “guerra del prezzo” tra Russia e Arabia Saudita dell’aprile scorso, che ha fatto crollare i future del petrolio per la consegna a maggio a -37,3 dollari il barile: un prezzo negativo, mai registrato nella storia.
La mossa a sorpresa de l presidente russo Vladimir Putin, che rifiutò di ridurre la produzione nazionale per sostenere il prezzo, si connette a una nuova intesa tra Russia e Cina, preparata nel tempo e attivata nel 2020 in versione anti-Trump.
Gas e petrolio sono complementari per le finanze dei Paesi produttori: con l’accordo sul gas e la costruzione del gasdotto Power of Siberia, operativo dal dicembre 2019, la Russia rifornirà la Cina (1000 miliardi di metri cubi) nei prossimi 30 anni; un’intesa stretta a condizioni di estremo vantaggio economico per l’acquirente cinese, che ha aiutato le finanze russe in difficoltà rendendo il bilancio pubblico meno dipendente dalla vendita all’Ue.
Il sogno infranto degli Stati Uniti
Sul versante politico invece l’alleanza sul gas è stata una mossa gestita in modo magistrale dal presidente cinese Xi Jinping, dopo le sanzioni, che ha consentito a Putin di sferrare un colpo forte e inatteso alle imprese dello shale oil americano, già fortemente indebitate, facendo crollare il prezzo ben al di sotto dei loro costi di produzione. Così da colpire il presidente americano Donald Trump sulle imprese dello shale al centro della sua strategia economica ed elettorale.
Era il sogno americano descritto da Megan O’Sullivan, accademica di Harvard esperta di petrolio e Direttrice del Programma di Geopolitica dell’Energia del Belfer Centre, che ha definito il “Rinascimento americano” , una ritrovata egemonia degli Stati Uniti, fondata sull’indipendenza energetica e costruita sulle nuove tecniche dello shale.
La tesi di Megan O’Sullivan, che segue l’approccio della maggior parte degli esperti statunitensi, è riassunta nel titolo trionfalistico "Come la nuova abbondanza energetica cambia la politica globale e rafforza il potere americano”.
Ma non sarà così. L’ironia della storia ha fatto sì che quando gli Stati Uniti hanno finalmente raggiunto l’indipendenza energetica perseguita per tutto il Novecento, prendesse forma un nuovo modello di produzione dell’energia, che rende marginale il petrolio.
La democrazia delle rinnovabili
La svolta del petrolio ha colto di sorpresa studiosi e esperti ma è parte di una trasformazione prevedibile per chi ha seguito gli indizi degli spostamenti della faglia geopolitica che hanno cambiato il mondo dell’energia all’inizio del nuovo millennio e sono ancora in movimento.
Le nuove relazioni di potere si inseriscono nell’ambito della rivoluzione energetica avviata con la produzione delle nuove fonti rinnovabili che hanno aperto nuove strade. E’ importante riconoscere che questo trend ha preceduto la crisi del Covid 19. Già nel 2019 la quota delle rinnovabili ha coperto il 40 per cento della crescita di fonti energetiche (stime lea e BP).
L’incertezza oggi riguarda i tempi della transizione. Le imprese si riorganizzano, tentano la via della produzione a basso carbonio, spingendosi a valle della filiera, nella raffinazione, nell’idrogeno, nella produzione chimica con la cattura del carbonio. Sono percorsi seguiti da tempo dai Paesi arabi del Golfo, i più ricchi e piu’ dipendenti dalla rendita del petrolio.
L’Arabia Saudita offre qualche testimonianza in questa direzione: gli impianti di raffinazione di Jubail, Yanbu e Jizan sono in costruzione sul territorio locale, mentre la Saudi Aramco ha stretto accordi con imprese di raffinazione in Cina, India, Indonesia e Stati Uniti.
La joint venture tra la Saudi Arabian Oil Company e la Dow Chemical stipulata nel 2011 (analizzata da Bassam Fattouk e Anupama Sen) è un esempio di alleanza industriale per mantenere in vita con prodotti meno inquinanti le sorti del petrolio, superare la riduzione della rendita da petrolio e creare un indotto locale manifatturiero. Ma gli obiettivi di Vision 2030 sembrano certamente troppo ambiziosi.
I mercati finanziari dubitano dell’efficacia a breve della riorganizzazione di imprese così esposte nel debito da rendere critica la possibilità di investimenti ingenti verso attività diversificate. La sfiducia ha colpito l’intera filiera, dal ramo upstream di estrazione e ricerca fino a valle, senza risparmiare questa volta neppure la raffinazione: ha fatto scendere al 3 per cento il peso di un settore tradizionalmente maggioritario nell’indice dello Standard & Poor 500.
Sono note le difficoltà delle imprese globali come Chevron, Exxon, Eni, Bp, Shell e persino della saudita Aramco, che da tempo aspetta un momento meno sfavorevole per quotarsi sul mercato globale. La forza di mercato dell’oligopolio del petrolio si è logorata.
Il costo del solare nelle stime di Irena (2019) è sceso a 3 centesimi di dollaro per kilowatt-ora, nei Paesi del Golfo, inferiore a tutte le altre fonti, fossili e nucleare inclusi; e in Arabia Saudita e Oman le aste recenti per la produzione di energia eolica negli impianti di Dumat Al Jandal (400 megawatt) sono state aggiudicate per circa 2,5 centesimi di dollaro il kilowatt-ora: un prezzo assai competitivo, anche per paesi dove permangono sussidi consistenti all’uso di combustibili fossili.
In questo quadro in movimento il mondo delle fonti rinnovabili apre una strada nuova di democrazia potenziale, dove l’Africa e larghe regioni del pianeta potranno trovare fonti di energia autonome, essenziali per uno sviluppo indipendente; dove i cittadini dei Paesi più industrializzati saranno responsabili individualmente delle scelte ambientali per i trasporti e l’energia.
Tra molte criticità resta l’interrogativo dei Paesi produttori, di quelli del Golfo in particolare, nei quali le popolazioni potrebbero infine liberarsi dai soprusi inauditi subiti per il controllo delle loro risorse naturali e gli Stati avviarsi dopo inevitabili lotte interne verso il riconoscimento reciproco attraverso una loro pace di Westfalia.
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