La pandemia non ha fermato l’accumulo di gas serra in atmosfera, il pianeta continua a riscaldarsi e i fenomeni climatici estremi hanno colpito 50 milioni di persone solo nel 2020.
L’Italia deve fare la sua parte per invertire la rotta. Con quasi 13 milioni di ettari coltivati sui 30 della superficie totale nazionale, il sistema alimentare può dare un forte contributo alla mitigazione del cambiamento climatico.
Nel rapporto 12 passi per la terra (e il clima), l’associazione Terra! propone misure per rendere l’agricoltura più forte e più verde, creare occupazione ed economia sul territorio riducendo l’impatto ecologico del cibo.
C’eravamo illusi che la pandemia potesse avere almeno un effetto “positivo”, quello di mettere un freno alla crisi climatica. Invece il recente rapporto dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ci restituisce l’immagine di un pianeta in cui le temperature continuano ad aumentare, così come la concentrazione atmosferica di gas serra, nonostante la temporanea riduzione delle emissioni collegata allo shock economico globale provocato dal Covid-19.
Il 2020 è stato uno dei tre anni più caldi mai registrati, con il termometro schizzato fino a 38 °C nel circolo polare artico. E mentre si fondono i ghiacciai e si innalzano i mari, le acque diventano più acide e si riduce la loro capacità di assorbire carbonio dall’aria, innescando fenomeni a catena. Cinquanta milioni di persone intanto, solo l’anno scorso, sono state colpite da inondazioni, siccità, tempeste e altri eventi estremi riconducibili al cambiamento climatico. Un quinto è dovuto migrare. Inoltre, l’accordo di Parigi, cui tutti guardano almeno in principio, potrebbe diventare obsoleto in tre anni appena.
La Wmo ritiene che già nel 2024 potremmo sforare la soglia del grado e mezzo di aumento delle temperature globali rispetto al periodo preindustriale.
Questi dati dovrebbero preoccuparci, allarmarci, spingerci a cambiare passo. Invece tutto sembra andare avanti come se nulla fosse. Andri Magnason, scrittore e attivista islandese, nel saggio Il tempo e l’acqua (edizioni Iperborea) sostiene che «espressioni come riscaldamento globale, per esempio, siamo ormai abituati a farcele scivolare addosso, mentre reagiamo a parole molto meno importanti». Sono come un “rumore bianco” che non riusciamo a captare. Il filosofo inglese Timothy Morton ha creato anche un termine per definire questi concetti inafferrabili: li ha chiamati “iperoggetti”, entità di tali dimensioni spaziali e temporali “da incrinare la nostra stessa idea di cosa sia un oggetto”.
Rumore bianco
Come si fa a trasformare il “rumore bianco” in consapevolezza? E come si trasforma la consapevolezza in azione? Queste sono le domande che dovremmo porci nella Giornata internazionale della Terra, quell’Earth Day istituito nel 1970 dall’Assemblea generale dell’Onu su proposta dell’attivista per la pace e l’ecologia John McConnell. Una giornata che arriva otto anni dopo la pubblicazione di Primavera silenziosa, il libro di Rachel Carson considerato pietra miliare di una presa di coscienza ambientale, grazie alla sua potenza evocativa nel denunciare i danni sull’agricoltura e la salute derivanti dall’uso dei pesticidi.
Nell’arco di questi cinquant’anni tuttavia, sebbene siano state centinaia le battaglie per il clima, il pianeta ha continuato a riscaldarsi e le sue risorse a essere depredate. La consapevolezza crescente, in parole povere, non si è tradotta in politiche sufficientemente ambiziose.
Transizione ecologica del cibo
Ma sebbene sia complesso mettere mano ai nostri sistemi sociali ed economici, è necessario farlo per riportarli entro la biocapacità planetaria. Nel suo piccolo, l’Italia può tracciare un percorso, attivare una transizione ecologica che parta dai suoi punti di forza: non l’industria dell’acciaio, non l’estrazione di petrolio, ma la produzione del cibo. I 13 milioni di ettari coltivati, un terzo della superficie nazionale, sono la base da cui possiamo partire per scrivere una storia diversa. In Europa siamo ancora tra i paesi il cui tessuto economico è formato da piccole e medie realtà produttive, ma da decenni assistiamo a un calo verticale del numero di aziende agricole. Sono le conseguenze di politiche miopi e degli impatti del cambiamento climatico. Le recenti gelate che hanno investito il paese ci raccontano delle conseguenze che il settore primario sta già pagando: raccolti andati persi per il freddo tardivo, grandinate, ondate di calore e siccità sono all’ordine del giorno per gli agricoltori, grandi e piccoli. Ma le istituzioni – al di là dei nomi roboanti dei ministeri – faticano a capire che il settore alimentare può essere il protagonista della transizione ecologica.
Pochi giorni fa, Stefano Patuanelli, l’attuale ministro dell’Agricoltura, ha organizzato il primo incontro delle costituenda rete di realtà – associazioni di categoria, sindacati, enti ricerca – che discuterà di come rendere operativa la prossima Pac, la politica agricola comune in corso di approvazione in Europa. Insieme ai fondi previsti dal Piano per la ripresa e resilienza – anche questo in corso di approvazione – parliamo di 50 miliardi di euro. Una dote finanziaria cospicua che l’Italia dovrà spendere per i prossimi sette anni, orientando così le sue politiche agricole.
Nel lungo elenco di interventi che si sono susseguiti, i cambiamenti climatici e la transizione ecologica sono rimasti però in secondo piano. Un rumore di fondo che (quasi) nessuno ha voluto mettere a fuoco.
Dovrebbero essere proprio gli agricoltori, invece, a chiedere di vincolare gli aiuti economici che ricevono a una transizione (ecologica) radicale dei sistemi produttivi. Perché il suolo su cui crescono i loro prodotti è sempre più esausto, incapace di nutrire le piante senza il sostegno della chimica, esposto alla desertificazione e al degrado. Tutto ciò avrà impatti anche sulla loro capacità di fare economia, eppure non stimola ancora quello slancio di “altruismo egoista” che potrebbe innescare dinamiche virtuose.
12 passi per la terra
Prendere consapevolezza del rischio che corriamo non vuol dire essere uccelli del malaugurio, neppure pensare che ormai tutto è perduto. Al contrario. Prendere consapevolezza, farlo a tutti i livelli, è il primo passo per guardare alle politiche e alle strategie produttive con uno sguardo nuovo, dove ogni settore – a partire da quello primario – è chiamato a fare la propria parte.
Va in questa direzione il rapporto pubblicato dall’associazione ambientalista Terra! 12 passi per la terra (e il clima), un’indagine sull’agricoltura italiana alla prova della crisi climatica, ma anche un manifesto di proposte per uscirne più forti (e più verdi). Il dossier mette insieme una disamina delle principali debolezze che il nostro paese presenta dal punto di vista del sistema agroalimentare: uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti che impoveriscono i suoli e fanno strage di biodiversità, alto spreco alimentare, allevamenti intensivi che causano inquinamento ed elevata dipendenza dal mercato globale dei mangimi, scarso ricambio generazionale cui fa da specchio la morìa di aziende agricole.
C’è poi lo spettro di nuove disuguaglianze, legate ai più gravi fenomeni climatici nel Mezzogiorno, che rischiano di esacerbare il già grande divario tra nord e sud Italia. È altissimo infatti il pericolo che un’estensione dei periodi siccitosi nelle regioni meridionali rappresenta per la salute di almeno quattro filiere di primario interesse nazionale: il frumento rischia perdite di produttività di circa il 20 per cento entro il 2040, per l’olivo e la vite è previsto uno spostamento degli areali di coltivazione verso nord, per il pomodoro un incremento della richiesta idrica giornaliera fra il 10 e il 30 per cento, con conseguente aumento dei costi.
Non basteranno le promesse dell’agricoltura di precisione, né tantomeno i tentativi di introdurre nuovi prodotti dell’ingegneria genetica a invertire questa deriva, che manderà fuori mercato decine di migliaia di aziende negli anni a venire.
Non saranno sufficienti i pannelli solari sulle stalle o progetti più o meno speculativi sul biometano, che il Pnrr e la Pac stanno per sdoganare. Occorre piegare i flussi economici a una strategia di riconversione che guardi a nuovi obiettivi: la riduzione dell’offerta di prodotti ad alto impatto ecologico e l’orientamento della produzione al mercato locale possono far bene all’economia territoriale e all’occupazione, abbassando al contempo la dipendenza dalle importazioni di prodotti legati alla deforestazione e alla violazione dei diritti umani. Una simile trasformazione non può più essere un tabù, perché l’aumento di efficienza nei processi produttivi non è sufficiente a ridurre gli effetti ecologici di questo sistema economico. Lo dimostra il lavoro rivoluzionario pubblicato a gennaio dall’Agenzia europea dell’ambiente, che sfata il mito della crescita verde dichiarando a chiare lettere che è improbabile un disaccoppiamento fra aumento del Pil e impatti ambientali. Sono queste le notizie a cui dovremmo dare il giusto peso nella Giornata mondiale della Terra, recuperando le intuizioni che già negli anni Settanta aprirono il grande dibattito sui limiti dello sviluppo. Oltre mezzo secolo dopo, quella fiaccola è stata raccolta dai giovani di tutto il mondo, che popolano le piazze per chiedere una transizione ecologica urgente e socialmente giusta. La loro voce non può cadere nel vuoto, e proprio chi lavora a contatto con la terra, gli agricoltori, dovrà schierarsi nelle prime fila dei movimenti per la giustizia climatica.
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