Dalla Nigeria all’Egitto, dal Congo all’Angola, gli effetti del gas flaring sulle popolazioni. La società di Stato italiana dichiara di aver bruciato 26 miliardi di metri cubi di gas flaring dal 2012 al 2022. Secondo le nostre stime il totale è quasi doppio
Gad Fri aveva cinquant'anni quando ha cominciato a perdere la vista. Ora ne ha 74 ed è quasi completamente cieco; il suo medico gli ha detto che dipende dall'inquinamento causato dal gas flaring. «Quando ero ragazzo nessuno qui era cieco e le persone in generale vivevano molto più a lungo», racconta Fri indicando il bastone sul quale si appoggia per camminare.
Siamo ad Obagi, Nigeria, un piccolo villaggio situato sul delta del fiume Niger, tra le zone di maggiore produzione petrolifera al mondo. I suoi circa 4mila abitanti vivono tra due fuochi. Letteralmente. A ovest si ci sono le fiamme dei giacimenti sfruttati da Eni, a est quelle dei pozzi trivellati dalla francese TotalEnergies
La testimonianza di Fri è una delle tante che abbiamo raccolto ad Obagi. Chiunque visiti il villaggio sentirà gli occhi lacrimare e una strana pressione sul petto. Lo ha riscontrato la giornalista Femke van Zeijl, che è andata nel Delta del Niger per questa inchiesta internazionale sul gas flaring intitolata “Burning Skies”, realizzata da Domani insieme ai consorzi giornalistici Eif e Eic.
Molti abitanti di Obagi lamentano problemi respiratori, eruzioni cutanee, tumori. E poi ci sono le piogge acide: distruggono i raccolti e accorciano la vita dei tetti in lamiera delle case. «Respiriamo aria sporca dagli anni sessanta, viviamo dentro un fuoco infernale», riassume Elechi Ifeanyi, 50 anni, presidente del Comitato per lo sviluppo della comunità.
Nel Delta del Niger
I residenti dicono di essersi lamentati con le compagnie attraverso lettere, appelli in radio e sui social network, ma cambiamenti non se ne sono visti. Anzi: il gas continua a essere bruciato in torcia senza sosta. A fine agosto, quando siamo stati a Obagi, Eni aveva appena venduto alla compagnia nigeriana Oando il blocco Oml 61, quello da cui spuntano le fiamme che si vedono dal villaggio.
I dati che abbiamo analizzato indicano che almeno fino al 2022, quando la compagnia italiana era operatrice della concessione, il gas flaring è stato una costante. Secondo le nostre stime, dal 2012 al 2022 il blocco Oml 61 ha infatti bruciato in torcia 3,6 miliardi di metri cubi di gas, cui si aggiungono 1,5 miliardi di metri cubi prodotti da un oleodotto di Eni che attraversa la stessa concessione.
In totale fanno 13,1 milioni di tonnellate di Co2 equivalente emessa: quasi il doppio dell'anidride carbonica prodotta nel 2022 da una città come Parigi.
Di quelle operate da Eni, Oml 61 non è l'unica concessione nigeriana a produrre gas flaring. Ci sono ad esempio anche Oml 60, Oml 63 e Oml 125. Eppure, nel Paese la pratica del flaring è vietata fin dal 1984, salvo specifiche autorizzazioni ministeriali.
«La parola chiave in Nigeria è impunità. Le aziende possono fare ciò che vogliono senza alcuna conseguenza», spiega Urenmisan Afinotan, nigeriano, docente di giurisprudenza presso l'università di Exeter, in Gran Bretagna. Alle domande sulle attività nigeriane, né Eni né il governo di Abuja hanno risposto.
La nostra inchiesta ha riguardato 18 paesi sparsi tra Africa e Medio Oriente. Grazie ai dati satellitari forniti dall'Earth Observation Group del Payne Institute for Public Policy e dalla ong Skytruth siamo riusciti a stimare la produzione di gas flaring di ciascuna attività upstream, midstream e downstream (cioè giacimenti d'idrocarburi, terminal petroliferi, oleodotti, gasdotti, raffinerie, impianti di liquefazione di Gnl) dal 2012 al 2022.
I conti non tornano
Mentre Eni dichiara di aver bruciato in atmosfera 2,1 miliardi di metri cubi di idrocarburi nel 2022, secondo i nostri dati nello stesso anno la quantità di gas flaring è stata oltre il doppio: 5,3 miliardi di metri cubi. La sproporzione è simile per gli altri anni presi in considerazione.
Eni ci ha risposto di aver prodotto 26 miliardi di metri cubi di gas flaring dal 2012 al 2022, mentre secondo le nostre stime il totale è di 50,8 miliardi di metri cubi. La differenza potrebbe essere maggiore. I dati dichiarati da Eni riguardano infatti tutti i Paesi del mondo in cui opera la compagnia, mentre i nostri considerano solo 18 Paesi.
Inoltre, a differenza di Eni, non abbiamo conteggiato il flaring prodotto da concessioni in cui l’azienda è azionista ma non operatrice.
Abbiamo chiesto conto ad Eni di queste differenze. La società ci ha risposto dopo dieci giorni spiegando di dover prima analizzare la lista degli asset da noi presi in considerazione. Abbiamo fornito la lista. Risposta finale di Eni: «I dati da voi condivisi sono frutto di stime derivate da rilievi satellitari.
Inoltre, analizzando la vostra lista abbiamo rilevato che parte degli asset sono non operati o fuori dal perimetro Eni». La società non ci ha comunicato quali sarebbero questi asset, né i dati delle emissioni di gas flaring divisi per Paese.
Nelle sue risposte Eni ha ricordato che «rendiconta le proprie emissioni Ghg (gas a effetto sera, ndr) coerentemente con i principali standard internazionali e best practice di settore», che è stata «valutata positivamente da parte dei principali rating Esg e benchmark climatici», che «ha dedicato uno sforzo crescente all’identificazione e all’implementazione di iniziative per mitigare il gas flaring» con riferimento particolare a «Congo, Libia ed Egitto», e che dal 2019 al 2023 «ha implementato azioni che hanno permesso di ridurre le emissioni nette Scope 1 e 2 Upstream equity di circa il 40%,».
Divieto di flaring
Oltre a causare l'emissione di gas serra, il flaring provoca danni sanitari. Secondo uno studio del 2022 della Banca mondiale, intitolato “L'impatto del gas flaring sulla salute dei bambini della Nigeria”, in diverse regioni del Paese «c'è un'associazione tra il flaring e l'incidenza di malattie, in particolare tosse, sintomi respiratori e febbre». Tra le aree studiate c'è anche lo Stato di Rivers. Proprio quello in cui si trova Obagi, il villaggio circondato dalle fiamme di Eni e Total.
La Nigeria non è l'unico Paese in cui il flaring è proibito. Tra quelli analizzati per questa inchiesta ci sono anche Repubblica del Congo, Angola e Algeria. Tutte nazioni dove Eni è presente. In Congo, dove la pratica della combustione in torcia del gas è vietata dall'1 luglio del 2022, la compagnia è ad esempio operatrice dal 2007 della concessione M'Boundi, nei pressi di Point Noire. Secondo le nostre stime, dal 2012 al 2022 nel giacimento sono stati bruciati circa 2,4 miliardi di metri cubi di gas. Nè Eni né le autorità congolesi hanno risposto alle nostre domande sul punto.
In Angola il flaring è proibito dal 2004, salvo che per brevi periodi di tempo. La Soyo Lng Plant, un impianto per liquefare il gas, è operata da Eni insieme a Sonangol, Chevron, Bp e TotalEnergies. Secondo le nostre stime in undici anni l'impianto ha bruciato 1 miliardo di metri cubi di gas.
Nei calcoli sul flaring, tenete in considerazione la Soyo Lng Plant? Eni sul punto non ha risposto, né lo hanno fatto le autorità angolane.
Egitto: «Dopo due ore mi sentivo soffocare»
Ci sono anche Paesi in cui il flaring non è regolato. Iraq, Egitto e Tunisia sono quelli in cui opera Eni. Approfondiremo il caso iracheno, molto controverso, in un altro articolo. Per ora concentriamoci sull'Egitto, dove la major italiana è uno dei principali produttori d'idrocarburi.
Dai nostri calcoli, le concessioni egiziane di Eni in cui è stato bruciato più gas sono quelle di Merged Melehia, l'impianto di liquefazione di Zohr e il blocco chiamato Abu Madi. È in quest'ultimo che si è recata Alyaa Yahya, un'altra delle giornaliste che ha collaborato all'inchiesta.
La concessione Abu Madi si trova nella zona orientale dell'Egitto, in un'area residenziale lontana solo 8 chilometri dal mare. «Dopo essere stata nella zona per due ore, ho cominciato a tossire e sentirmi soffocare», ci ha raccontato la collega.
Alcuni residenti le hanno confidato che molte persone, anche i neonati, soffrono di disturbi simili, e che si verificano diversi casi di nascite premature e aborti spontanei. «L'odore del gas è soffocante», ha detto un residente della zona. Tutti gli intervistati hanno chiesto di non essere citati per nome, spiegando di voler evitare problemi ai propri parenti che lavorano nella concessione di Abu Madi.
Abbiamo chiesto ad Eni un commento sulla situazione di Abu Madi. La società ci ha risposto che in ogni Paese in cui opera «prevede la valutazione degli impatti sanitari dei progetti industriali rispondendo anche alle indicazioni trasmesse dalle autorità in fase di permitting e in coerenza con gli standard di settore (Iogp).
Nel corso del periodo 2012-2022», ha specificato, «sono stati eseguiti studi di impatto sanitario, ambientale e sociale per 175 progetti nei paesi in cui Eni opera. Sulla base degli esiti degli studi e di concerto con le autorità competenti sono stati realizzati ove necessario studi epidemiologici e iniziative specifiche».
Questa indagine fa parte della serie "Burning Skies: dietro le fiamme tossiche di Big Oil", sviluppata da EIF, un consorzio globale di giornalisti investigativi ambientali, in collaborazione con la rete europea EIC (di cui fa parte Domani) e i suoi partner Daraj, Source Material, Oxpeckers Investigative Environmental Journalism. Questa serie è stata sostenuta dal JournalismFund Europe.
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