- Vi è una sorta di asimmetria nell’informazione sul clima: siamo sempre più informati sui disastri che avvengono nel mondo ma non abbiamo notizie quando le cose vanno meglio del previsto. Per questo dovremmo sempre analizzare il problema in un’ottica globale.
- Nel corso del secolo alle nostre spalle, grazie alle migliori capacità di previsione e a strutture via via più resilienti, la nostra vulnerabilità al clima si è fortemente ridotta; l’attuale costo economico dei fenomeni estremi è intorno allo 0,2 per cento del Pil mondiale.
- Non è dunque la situazione attuale ma la necessità di scongiurare nel lungo periodo eventi che non siamo in grado di escludere con certezza e che sono di difficile quantificazione economica a motivare la riduzione delle emissioni dei gas serra.
Prima la cappa di calore e nord America con temperature record che hanno sfiorato i 50 °C. Poi l’alluvione in Germania. E ancora gli incendi in Siberia, Grecia e Turchia. Il 2021 sembra avere le apparenze di un Annus horribilis per colpa del clima impazzito. Ma è davvero così? C’è una sorta di asimmetria informativa per le notizie che riguardano il tema. Se in un dato paese accade un fenomeno straordinario ne abbiamo quasi certamente notizia ma non accade l’inverso: se precipitazioni, uragani o incendi sono al di sotto della media la notizia non c’è e non lo veniamo a sapere.
Per ovviare a questo bias, e in considerazione del fatto che il cambiamento climatico si manifesta su scala planetaria, per interpretare il fenomeno è necessario fare riferimento ai dati che riguardano la frequenza degli eventi in tutto il mondo. Sappiamo che per alcuni di essi come le precipitazioni intense e i periodi caratterizzati da temperatura sopra la norma la frequenza è in aumento. Più incerto è invece il quadro per quanto riguarda altre componenti del clima: in molti casi non è possibile definire una chiara evoluzione anche perché si tratta di eventi piuttosto rari con elevata variabilità negli anni.
Non tutti gli eventi estremi si trasformano in disastri. Secondo la classificazione adottata dal centro di ricerca belga Em-Dat (i cui dati sono presi a riferimento dalle agenzie delle Nazioni unite) un evento viene classificato come un disastro se ricorre almeno una tra le seguenti condizioni: a) vi sono state dieci o più vittime; b) vi sono cento o più persone coinvolte, ferite o senza casa; c) il paese ha dichiarato lo stato di calamità e/o richiesto assistenza internazionale. Se analizziamo l’evoluzione del numero di disastri causati da eventi meteorologici negli ultimi cento anni, registriamo un aumento fino alla fine del secolo scorso: da pochi casi all’anno si sale a circa 350; nelle ultime due decadi la frequenza è rimasta sostanzialmente invariata. Nei primi sette mesi del 2021 il conteggio arriva a 213. Sembra evidente che il trend dello scorso secolo sia fortemente influenzato dal miglioramento della raccolta di informazioni sugli eventi calamitosi. La numerosità dei disastri dipende principalmente da tre fattori: a) la frequenza degli eventi; b) la popolazione e il valore dei beni presenti nella zona colpita; c) le misure adottate per ridurre l’impatto dei fenomeni.
Dal 1920 a oggi la popolazione mondiale è all’incirca quadruplicata ed è aumentata la quota di persone che vive in zone più esposte ai rischi climatici. Nonostante ciò, il numero medio di vittime per anno causato da disastri meteorologici è radicalmente diminuito: da oltre 400mila negli anni Venti e Trenta si è passati agli 11mila della decade alle nostre spalle. Nei primi sette mesi del 2021 le vittime sono state 3.644.
Il tetto della casa
La capacità di prevedere gli eventi, la possibilità di costruire edifici più sicuri e, in alcuni casi, il potersi spostare rapidamente dai luoghi colpiti dalle calamità naturali hanno dunque avuto un effetto di gran lunga più rilevante rispetto a quello demografico e all’aumento della frequenza dei fenomeni. Potremmo dire che abbiamo riparato il tetto della casa in cui viviamo e, anche se per farlo abbiamo alterato il clima incrementando così la frequenza delle piogge intense, oggi rischiamo molto meno rispetto al passato. Al riguardo, è significativo che i dieci eventi più disastrosi siano tutti accaduti prima dell’anno 1967.
Veniamo ora all’impatto economico. Negli ultimi dieci anni i danni relativi a disastri meteo nel mondo sono ammontanti in media a 146 miliardi di dollari per anno, contro i 98 di quella precedente e gli 84 tra il 1991 e il 2000. Il dato grezzo è però in sé poco significativo perché influenzato, come detto, da fattori demografici e localizzativi e dalla crescita dei beni danneggiabili. È questa la ragione per cui si fa di abitualmente riferimento al rapporto tra danni e PIL. Questo rapporto non solo consente di tenere conto dei fattori non climatici ma è rilevante anche in termini di sostenibilità (tanto che è in questa formulazione inserito tra gli obiettivi dell’Onu): un po’ come il debito pubblico, il cui valore non è rilevante in valore assoluto ma in rapporto al Pil di un paese.
Con riferimento a questo parametro non si è registrato finora un trend in aumento. In media, negli ultimi 30 anni, esso è risultato pari a circa lo 0,20 per cento del Pil mondiale di cui una parte è riconducibile all’incremento della frequenza dei fenomeni. Forse peccando per eccesso, potremmo dire che oggi il cambiamento climatico ci costa in termini di eventi estremi lo 0,1 per cento del Pil mondiale. Per quanto riguarda il nostro continente, l’Agenzia per l’ambiente europea stima il costo medio annuo degli eventi estremi dal 1980 al 2019 pari a 11 miliardi equivalenti allo 0,1 per cento del Pil attuale; analogo valore si applica all’Italia (1,8 miliardi in media negli ultimi 40 anni).
Resilienza in aumento
I trend futuri saranno, da un lato, influenzati dalla maggior frequenza degli eventi e, dall’altro, dall’aumento della resilienza che è correlata con il livello di reddito (al 2100 il reddito medio pro-capite potrebbe essere pari a quattro volte quello di inizio secolo) e all’ulteriore affinamento delle nostre conoscenze scientifiche e capacità di previsione. L’esito dell’applicazione di queste due forze opposte non è scontato. Non è la situazione odierna nella quale la nostra vulnerabilità al clima è ai minimi storici e gli impatti economici del cambiamento climatico sono modesti (e, prima del Covid, il reddito pro-capite, la speranza di vita ai massimi di sempre e la povertà assoluta, la mortalità infantile, il lavoro minorile e la malnutrizione al minimo di sempre) a motivare ingenti investimenti per la riduzione delle emissioni ma la necessità di scongiurare nel lungo periodo eventi che non siamo in grado di escludere e che sono di difficile quantificazione economica.
Una polizza che stipuliamo a vantaggio delle future generazioni. Senza dimenticare che, nel breve e medio termine, a fare la differenza, soprattutto nei Paesi più poveri, saranno ancora la crescita economica e gli interventi di adattamento. E che la mitigazione ci rende inizialmente un po’ più poveri e, quindi, più vulnerabili.
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