Negli ultimi tre anni la società ha emesso 4,7 miliardi di euro di “obbligazioni legate alla sostenibilità”. Ma i soldi raccolti, a dispetto del nome, possono essere usati anche per estrarre gas e petrolio
È un po’ come se un medicinale chiamato anti-tumorale non servisse per curare i tumori, o come se un liquido venduto come disinfettante non avesse la capacità di uccidere i batteri. Da una manciata d’anni le società petrolifere hanno trovato un nuovo modo per finanziarsi: si chiamano “sustainability-linked bond”, cioè “obbligazioni legate alla sostenibilità”. Così almeno dovrebbe essere, se uno si fermasse al nome.
L’inchiesta condotta da Domani e da Voxeurop dimostra però che questi titoli – venduti sia a investitori istituzionali che a comuni risparmiatori – possono in realtà essere utilizzati da chi li emette per investire in attività che nulla hanno a che fare con la sostenibilità. L’assenza di regolamenti da parte di un’autorità pubblica sta così permettendo a qualsiasi azienda di finanziarsi in nome della crisi climatica, senza tuttavia avere l’obbligo di usare i soldi raccolti per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi, che mira a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 2°C.
Solo tra il 2021 e il 2023, multinazionali dell’oil&gas come le italiane Eni e Snam, la spagnola Repsol e l’olandese Gasunie hanno raccolto circa 9 miliardi di euro attraverso i sustainability-linked bond. Lo dicono i dati del London Stock Exchange Group analizzati per questo articolo. Eni è stata di gran lunga la regina del mercato. In questo lasso di tempo, ci ha risposto la società, abbiamo «emesso 4,75 miliardi di euro di sustainability-linked bond».
Un successo che l’amministratore delegato, Claudio Descalzi, commentava così nel gennaio 2023, alla vigilia del lancio di un sustainability-linked bond da due miliardi di euro, dedicato anche ai risparmiatori e ammesso in seguito alle negoziazioni alla Borsa di Milano: «Tantissimi italiani hanno creduto in quello che stiamo facendo, sia in termini di progressiva evoluzione verso processi industriali e prodotti decarbonizzati, sia di garanzia della sicurezza energetica».
PSICOLOGIA DEL NAMING
Alcuni grandi quotidiani italiani in quei giorni raccontavano di Eni e della grande domanda per il suo «green bond». Che, però, green bond non è. Green Bond e sustainability-linked bond sono prodotti diversi: fanno entrambi parte della categoria delle obbligazioni Esg (Environmental, social, governance), ma hanno caratteristiche molto differenti.
Mentre chi emette Green Bond deve impegnarsi a usare le risorse raccolte per finalità sostenibili, con i sustainability-linked bond – meglio noti come Slb – questo non è obbligatorio. Per mettere sul mercato Slb la compagnia può limitarsi a fissare due generici obiettivi di sostenibilità (Kpi, cioè key performance indicators). Alla scadenza del titolo, se la società non sarà stata in grado di raggiungerli, dovrà pagare ai sottoscrittori un tasso leggermente superiore rispetto a quello fissato in origine. Tuttavia, il denaro raccolto attraverso queste obbligazioni non deve essere impiegato per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità: paradossalmente, i soldi possono essere investiti anche per estrarre combustibili fossili.
I dati del London Stock Exchange Group mostrano che, tra le obbligazioni Esg, le preferite dalle compagnie dell’oil&gas sono state finora proprio quelle che vanno sotto il nome di sustainability-linked bond. Ma i cosiddetti Slb piacciono alle società di tutti i settori, non solo di quello petrolifero. Considerando esclusivamente le obbligazioni denominate in euro, tra il 2019 e il 2023 ne sono state emesse in totale per 92 miliardi in totale.
Ma restiamo su Eni, tra le più grandi compagnie petrolifere al mondo, prima in assoluto in Italia, controllata dal ministero dell’Economia. Tra il 2019 e il 2023, come detto, l’azienda ha emesso Slb per un totale di 4,75 miliardi di euro: un miliardo nel giugno 2021, due miliardi nel febbraio 2023, 750 milioni a maggio e un miliardo a settembre.
COME SONO STATI VENDUTI I TITOLI
Diverse banche italiane hanno formato un consorzio per vendere le obbligazioni di Eni ai risparmiatori. Alcuni di questi istituti di credito hanno pubblicizzato i bond alla clientela con il claim «Transizione e crescita sono possibili», sullo sfondo pale eoliche e montagne a perdita d’occhio. L’Slb di febbraio 2023, il più rilevante visti i 2 miliardi raccolti, è stato emesso con scadenza nel 2028, tasso d’interesse minimo lordo del 4,3 per cento. Eni si è impegnata al raggiungimento di due obiettivi (Kpi): aumentare la capacità di energia rinnovabile di cinque gigawatt (GW) e ridurre le emissioni di gas serra derivanti dalle sue attività (dette Scope 1 e 2) del 65 per cento rispetto ai livelli del 2018. Se alla scadenza del bond non dovesse raggiungere uno dei due obiettivi, per Eni il tasso d’interesse da pagare ai sottoscrittori salirebbe al 4,8 per cento.
Dietro un nome che fa pensare alla cura dell’ambiente c’è però una realtà molto più ambigua. Analizzando con la lente d’ingrandimento le 212 pagine di prospetto informativo, si scopre che Eni non ha alcun obbligo di utilizzare il denaro raccolto con il suo bond per attività sostenibili: «L’Emittente», si legge, «prevede di utilizzare i relativi proventi netti per scopi societari generali e non intende destinare i proventi netti a progetti o attività commerciali che soddisfano criteri ambientali o di sostenibilità».
Dunque, per quali finalità Eni sta utilizzando le risorse raccolte attraverso l’emissione obbligazionaria di “bond collegati alla sostenibilità”? Sono escluse le attività relative all’estrazione di petrolio e gas? «Come chiaramente specificato nei nostri prospetti di emissione», è stata la risposta della società, «i proventi vengono utilizzati per finanziare l’ordinario fabbisogno finanziario di Eni; queste emissioni non sono collegate al finanziamento di attività o progetti specifici».
CONTROLLORI E CONTROLLATI
Per spiegare come mai un’azienda può emettere sustainability-linked bond senza dover investire un euro di quelli raccolti in sostenibilità, bisogna prima capire come funziona questo mercato. In due parole: senza obblighi. Protagonista assoluta del settore è l’International Capital Market Association (Icma), un’associazione con 620 aziende iscritte. Tra le quali c’è anche Eni. Icma fornisce linee guida sull’emissione di bond Esg, compresi gli Slb. L’adesione a queste regole è volontaria. Il mercato non è regolamentato da alcuna autorità europea: per questo la Consob ha autorizzato la quotazione degli Slb di Eni, basandosi sull’adesione alle regole generali dei prodotti finanziari, senza però avere alcuna autorità per giudicarne gli obiettivi ambientali.
Con lo scopo di emettere strumenti come gli Slb, Eni ha pubblicato il suo Sustainability-Linked Financing Framework, un documento in cui ha dichiarato quali sono le linee guida seguite dalla società in termini di sostenibilità. A valutarlo è stata Moody’s, una delle principali agenzie di rating al mondo. Anche Moody’s, così come quasi tutte le banche che hanno piazzato sul mercato i bond Eni, fa parte di Icma. E Moody’s è stata pagata da Eni per la sua valutazione, ci ha confermato la stessa società petrolifera.
Pur ritenendo che il Cane a sei zampe sia in linea con le linee guida di Icma (riferimento, appunto, nel settore), nel suo rapporto Moody’s scrive che il «contributo alla sostenibilità» della compagnia italiana sarà «nel complesso limitato». Nel documento l’agenzia di rating ricorda anche che le emissioni scope 1 e scope 2 «rappresentano solo il 3 per cento del totale delle emissioni di gas serra» generate da Eni, mentre «le più rilevanti» sono le scope 3, cioè le emissioni generate dai fornitori e dai clienti dell’azienda.
NESSUN OBIETTIVO SULLE EMISSIONI SCOPE 3
I sustainability-linked bond di Eni, però, non prevedono tra gli obiettivi la riduzione delle emissioni scope 3. Perché? Lo abbiamo chiesto alla compagnia, e questo è ciò che ci ha risposto: «I quattro bond Eni sustainability-linked hanno scadenza tra il 2027 e il 2030, anni in cui evidentemente non sarà possibile determinare il raggiungimento o meno dell’obiettivo Scope 3 (risultato che sarà noto solo nella prima parte del 2031). Non era quindi possibile inserire l’obiettivo Scope 3 nei bond emessi». Eni ha anche aggiunto che «sulle emissioni scope 3 siamo ancora in attesa che venga definita a livello pubblico una metodologia condivisa». Tale metodologia, in realtà, è già stata concordata a livello europeo e dovrebbe entrare in vigore entro il 2025 all’interno della direttiva Ue Corporate Sustainability Disclosure Directive.
Ad ogni modo, per chi non mastica questo linguaggio, la questione potrebbe apparire troppo tecnica per essere compresa. Di sicuro, per qualsiasi investitore, è importante ricordare che chi emette sustainability-linked bond non ha alcun obbligo di investire il denaro raccolto in attività sostenibili.
Al contrario potrebbe, senza doverlo comunicare ai sottoscrittori, usare quei soldi per estrarre combustibili fossili: la principale causa della crisi climatica in corso. Il caso Eni rende dunque evidente la necessità di una maggiore trasparenza nel modo in cui prodotti finanziari del genere vengono commercializzati. Un primo passo in questa direzione dovrebbe coincidere con l’entrata in vigore, il prossimo 21 dicembre, della nuova regolamentazione Ue sulle “obbligazioni verdi”.
Questo articolo è frutto di un’inchiesta coordinata da Voxeurop con il supporto del Bertha Challenge fellowship. Stefano Valentino è Bertha Challenge Fellow 2024
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