- Vent’anni dopo i semi di Genova 2001 stanno ancora fiorendo. L’ambientalismo non era la rivendicazione più visibile, ma in quegli anni si sono saldate le battaglie ecologiche e quelle sociali.
- I movimenti di oggi parlano di giustizia climatica, diretta emanazione delle proteste contro il G8 .
- Li chiamavano no global ma al contrario gettarono le basi per un ambientalismo globale, è stato il primo movimento ecologista ad applicare il vecchio slogan "pensa globalmente, agisci localmente”.
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Protesters on a tractor during the demonstration on July 20, 2001 during the 27th G8 summit in Genoa, Italy Photo by: Marijan Murat/picture-alliance/dpa/AP Images
Per l'ambientalismo italiano il Genoa Social Forum è stato la storia di una lunga semina. Nel 2001 mancavano sei anni al quarto rapporto dell'IPCC, quello che stabilì il legame inequivocabile tra le attività umane e il riscaldamento globale, quattordici all'accordo di Parigi e all'enciclica di ecologia integrale del Papa, diciassette al primo sciopero di Greta Thunberg.
Nella semina fatta tra Seattle, Genova e Porto Alegre c'era però già tutto, in modo disordinato, primordiale, senza vent'anni di scienza del clima a supporto e col vento della politica a sfavore, ma c'era davvero tutto: la critica del modello di sviluppo, il legame tra giustizia ambientale e sociale, l'insostenibilità dell'agricoltura e degli allevamenti, la denuncia dei limiti delle risorse ecologiche che l'economia continuava a considerare infinite.
A Genova c'erano il movimento contadino Sem Terra, la rete Via Campesina, i No Tav, Wwf, Legambiente e Greenpeace, tre organizzazioni ricevute durante le consultazioni da Draghi vent'anni dopo, segno di come certi temi siano slittati dai margini al centro del dibattito.
Da un punto di vista ambientalista, la protesta contro il G8 di Genova del 2001 fu l'ultima manifestazione del Novecento e la prima del secolo successivo, quei due anni di dibattiti e proteste archiviarono l'ecologia come semplice protezione della natura e ce la restituirono come protezione dei diritti umani.
«L'ambientalismo di oggi è un successo di quel movimento, di quella talpa che ha scavato per due decenni, senza quell'elaborazione non avremmo il Green Deal europeo, la finanza sostenibile, le imposte sulle multinazionali, il ragionamento sui beni comuni», spiega Giulio Marcon, ex deputato, portavoce della campagna Sbilanciamoci, una delle tante persone di raccordo tra il mondo di prima e quello di oggi.
Più terra e meno clima
C'erano priorità diverse, l'ambientalismo del 2001 era più terra, cibo e agricoltura che atmosfera, clima ed energia. Marcon ricorda uno degli incontri del Genoa Social Forum con Ermete Realacci, all'epoca presidente di Legambiente, e Gianfranco Bologna (Wwf, a Genova nella rete Lilliput), una discussione «molto partecipata» su uno sviluppo sostenibile basato sull'abbandono delle fonti fossili e sull'energia verde.
Nella piattaforma di richieste c'erano le rinnovabili e la ratifica del protocollo di Kyoto, il 17 luglio Greenpeace fece un arrembaggio simbolico a una petroliera a Vado Ligure, la scienza del clima c'era già, ma era minoritaria nell'immaginario e piccola all'orizzonte, i cambiamenti climatici si chiamavano ancora effetto serra. Il nemico, per un attivista di vent'anni a Genova, erano la multinazionale dei semi Monsanto o McDonald's più che Eni o Exxon.
Il discorso sul cibo era la parte più avanzata del ragionamento, permetteva di tenere insieme i pezzi del puzzle, gli squilibri della globalizzazione, il rapporto tra nord e sud del mondo, le campagne sul debito, il destino delle popolazioni indigene, il commercio equo solidale.
Il giornalista Lorenzo Guadagnucci era alla Diaz, aveva seguito il movimento da Porto Alegre, dove aveva visto saldarsi l'attivismo occidentale con i contadini del sud: «La critica sul modello di sviluppo è stata plasmata da questi legami politici col Sudamerica, il movimento partiva dall'agricoltura per mettere in discussione la globalizzazione, la ricerca strenua della crescita a tutti i costi, indicatori come il Pil».
Su quel fronte c'erano teorie e battaglie politiche già mature, che tra il 1999 e il 2001 ottennero la massima visibilità. A Genova c'era l'attivista indiana Vandana Shiva, uno dei volti del movimento era José Bové, il pasdaran francese del roquefort.
Dai semi indigeni o da un formaggio francese si poteva tirare un filo che permetteva di mettere in discussione l'Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale e le multinazionali. Il rapporto tra clima, eventi estremi e giustizia globale era invece ancora un tema accademico, la prima delle venticinque Cop si tenne a Berlino solo due anni dopo (guidata dall'allora ministra dell'ambiente tedesca Angela Merkel). Nelle conversazioni non si parlava di riscaldamento globale.
L’allenamento ideologico
I social forum crearono però uno schema adatto ad accogliere anche le evoluzioni successive. Quello di Genova fu un allenamento ideologico che gli attivisti dei due decenni successivi hanno ricevuto come eredità, consapevole o meno. Secondo Guadagnucci uno dei patrimoni di Genova fu il ragionamento ecologico di scala, «la capacità di unire in una visione comune esperienze diverse, immaginare un cambiamento su una dimensione globale, che unisse ambientale, politica, sociale».
La capacità di mescolare locale e globale è stato uno degli slogan più antichi dell'ecologismo, ma fu quel movimento a mettere a punto gli strumenti per riuscirci concretamente. Li chiamavano no global ma al contrario gettarono le basi per un ambientalismo globale. Uno degli strumenti decisivi furono proprio i forum come quello del contro-vertice genovese. «Era la verità novità politica di quella stagione, il modo in cui lavoravano, la capacità di far dialogare voci ed esperienze. Per l'epoca era una cosa impensabile, prima non poteva succedere per ragioni politiche ma anche semplicemente tecnologiche».
La violenza di stato del 2001 ci costringe vent'anni dopo a parlare di democrazia sospesa e ordine pubblico, ma la forza propulsiva di quella stagione furono le centinaia di seminari e incontri che precedevano i cortei di Genova o animarono Porto Alegre e Firenze. «Quello era un movimento competente, che studiava, che accumulava conoscenze grazie a quel fermento».
I forum erano un modo forse ancora ingenuo ma molto fertile di maneggiare la complessità, un modello perfetto per gestire il tema più complesso mai affrontato da un movimento: la crisi climatica. Oggi ogni organizzazione ambientalista è diventata un forum, funziona come un centro studi, produce conoscenza prima ancora che protesta.
Gli stessi Fridays for Future si sono costruiti politicamente non solo con le piazze ma nell'alleanza col mondo scientifico. Nel 2020 durante la pandemia quelli italiani hanno sviluppato la piattaforma di proposte Ritorno al futuro in quello che fratelli e sorelle maggiori nel 2001 avrebbero definito un social forum digitale.
Quando il sindacato scoprì l’ambiente
Nel 2001 Mario Agostinelli era segretario della CGIL Lombardia, portò decine di pullman pieni di gente a Genova «in disaccordo con la CGIL nazionale. La nostra era una sfida ai potenti della Terra ma sembrava quasi una grande gita parrocchiale». Il suo percorso personale riassume bene quello dell'ambientalismo italiano di questi vent'anni. All'epoca Agostinelli girava la Lombardia fabbrica per fabbrica, «il tema ambientale era ancora il rapporto tra lavoro e salute. Nel sindacalismo italiano i danni della produzione erano visti solo nella fabbrica e intorno alla fabbrica, non si guardava al contesto generale».
Oggi Agostinelli si occupa di energia ed è, da laico, presidente dell'associazione Laudato si', nata per diffondere il messaggio dell'enciclica papale del 2015 sull'ambiente. «Francesco e Greta Thunberg secondo me hanno rovesciato il discorso di Genova, che era ancora molto antropocentrico. Oggi ci sono i 50° C in Canada, se porto mia nipote a Venezia mi dice che forse da grande non potrà più venirci, queste sono generazioni che hanno imparato una visione diversa, perché il ruolo dell'essere umano è diverso».
A Genova Agostinelli era nella commissione che si occupava di energia e lavoro, un attivista per il clima di oggi si sentirebbe perso nelle conversazioni di vent'anni fa che racconta lui, invecchiate come se fosse passato un secolo, non tanto per colpa del Genoa Social Forum quanto per l'accelerazione della crisi climatica e l'affermarsi della scienza del clima come paradigma dell'ambientalismo.
«Il discorso sul petrolio era ancora sul picco e sulla fine del petrolio, sulla diseguaglianza e i conflitti che portava l'accesso a questa risorsa, non sui danni che stava arrecando alla Terra, è per questo che penso che l'ambientalismo di Genova fosse più antropocentrico di quello post-Laudato si'e post-Greta. Dopo di loro il pensiero occidentale ha cambiato orientamento».
Qui però c'è un altro seme lasciato da Genova, il suo orizzonte ampio, che teneva insieme le tute bianche di Casarini e Mani tese, il sinistra radicale e il cattolicesimo progressista, Pax Christi e il Leoncavallo. «Dimentichiamo spesso quanto fosse mescolata Genova, sui nostri bus da Milano c'erano le Acli, la Cisl, era una comunità ampia».
La frammentazione successiva ha fatto smarrire quell'ampiezza, come vedremo, ma se oggi su tanti temi (basta vedere il dibattito sulla Zan) Chiesa e movimenti sono lontani, nella lotta alla crisi climatica la vicinanza tra il cattolicesimo di Francesco e l'attivismo ambientalista ricorda da vicino le piazze di Genova.
La frattura in tre parti
«Genova non è una sola storia, è tante storie diverse». Donatella Della Porta, politologa della Normale, è una studiosa di movimenti e ha osservato le direzioni opposte che ha preso l'ambientalismo dopo Genova.
Negli esiti politici c'è stata quella Della Porta definisce «una frattura», gli eredi della semina si sono spaccati in tre filoni: gli ambientalisti dell'orto, quelli della pala eolica e quelli delle barricate, mondi che hanno comunicato poco negli anni dopo Genova. Da un lato si è accentuata l'idea della decrescita come risposta ecologica: «Era un tema già incubato dal social forum e dalle strade di Genova, si è affermata la ricerca di uno stile di vita etico e sostenibile radicale su un piano individuale ma con pochissima politica, è una cosa figlia dell'effetto che la repressione ha avuto su tante persone».
Poi c'è la cordata che ha seguito i negoziati sul clima, che ha rafforzato il discorso sull'energia, sono gli eredi di Genova che hanno iniziato a vedere la possibilità di salvare l'ambiente attraverso i rapporti con l'industria e le soluzioni win win nel mondo delle rinnovabili o dell'economia circolare.
E infine c'è un terzo elemento, che non si può che collegare a Genova e che ha caratterizzato gli ultimi due decenni di ambientalismo in Italia: le lotte territoriali contro le infrastrutture, No Tav, No Dal Molin, No Muos, No Triv. «Dopo il G8, l'ambientalismo è entrato nei centri sociali, si è intrecciato ad altre lotte politiche.
Nel social forum hanno imparato collegare i conflitti territoriali alle lotte globali: a Genova si parlava già molto di grandi opere. Battaglie come quella contro la Tav hanno avuto l'abilità politica di andare oltre il Nimby, "not in my backyard", e di avere una dimensione "not in my planet", diventando lotte di tutti.
Alcuni attivisti di quei movimenti si sono politicizzati sui territori, ma altri venivano da lunghe storie di pacifismo ed ecologismo per le quali Genova è stata una tappa importante per sviluppare una visione globale delle cose».
Lo stesso movimento No Tav viene incubato negli anni '90, si struttura nel 2001, partecipa alle proteste contro il G8 (c'era una bandiera No Tav in Piazza Alimonda una settimana dopo l'uccisione di Carlo Giuliani), ed esplode con la marcia del 2003, come se da quell'anno di cambiamento e transizione fosse uscito cresciuto, maturato e preparato a unire globale e territoriale.
Dall’ambiente a tutto il resto
Giovanni Mori è uno dei sei portavoce nazionali dei Fridays for Future. È il più «anziano» del gruppo, nel 2001 aveva otto anni e si occupava di altro. Di cosa è successo a Genova ha iniziato a farsi un'idea solo ora, ma dà una lettura intergenerazionale interessante di come sono cambiate le cose. «Prima si partiva dal sociale e una delle declinazioni era quella ambientale, oggi le battaglie partono dall'ambiente e si espandono a tutto. Gli attivisti del 2001 e quelli di oggi si occupano di futuro, ma oggi occuparsi di futuro è occuparsi di clima».
A Genova l'ambientalismo non era la rivendicazione più sentita né quella più visibile, oggi la crisi ecologica e le ingiustizie globali che porta hanno trasformato il discorso. La giustizia climatica, pilastro dei Fridays e di ogni movimento ambientalista contemporaneo, è emanazione diretta di quello per cui si è lottato a Genova nel 2001.
La differenza più vistosa tra i movimenti di allora e quelli di oggi è invece il pacifismo radicale delle piazze, un'eredità quasi involontaria e istintiva, reazione al fatto che gli scontri vent'anni fa hanno svuotato il messaggio: «Per noi il pacifismo è così connaturato che non abbiamo nemmeno dovuto farci una riflessione, è quello che siamo. Il significato della nostra azione è parlare a tutti, una piazza violenta è una piazza che smette di comunicare».
A Venezia in occasione del G20 Finanze ci sono stati scontri tra attivisti per l'ambiente e la polizia, niente di lontanamente paragonabile a Genova, ma le pagine nazionali di Fridays for Future non si sono espresse, come se la logica degli scontri non finisse proprio nei radar della loro azione.ù
Non ci sono quasi più zone rosse per gli attivisti del clima, vengono invitati a parlare agli incontri, ascoltati, spesso blanditi e usati. Non è detto che sarà così per sempre, la storia dell'attivista dei Fridays Disha Ravi arrestata in India per il sostegno alle lotte dei contadini è stata un campanello d'allarme.
«Vengono invitati anche all'Onu perché non sono considerati non problematici, ma il punto della politica è il conflitto», ragiona Lorenzo Guadagnucci. «Nel 2001 un intero movimento fu criminalizzato invece di essere ascoltato, oggi ho la sensazione che i giochi veri per questa generazione non siano ancora cominciati».
La prima causa climatica
Questa estate a Roma è stata presentata Giudizio Universale, la prima causa climatica contro lo stato italiano, una variante di iniziative che stanno riscrivendo le leggi sul clima in tutta Europa. Non più conquista simbolica della zona rossa, ma un atto depositato al tribunale civile di Roma.
Se questo fosse un film, sarebbe l'epilogo perfetta della storia, nella causa climatica c'è la stessa eterogeneità del Genoa Social Forum, tra i promotori ci sono bambini e ragazzini, ci sono i Fridays for Future, il climatologo Luca Mercalli, associazioni nate nel contesto della lezione del post-G8 come i comitati contro le trivelle, a guidare tutto un'organizzazione con forti legami globali come A Sud, presieduta da Marica Di Pierri, attivista che racconta come la sua militanza sia stata innescata da Genova e sia proseguita nei forum sociali in America Latina.
«L'emergenza climatica è paradigmatica», spiega Di Pierri. «Paradigmatica del fatto che un altro modello è necessario e urgente, oltre che possibile. Che le questioni ecologiche e sociali e i processi democratici attraverso cui si decidono le policy ambientali sono intrecciate.
All'interno dell'emergenza climatica possono leggersi tutte le istanze e le rivendicazioni dei movimenti ecologisti che hanno segnato questi decenni». Sono i semi di Genova, vent'anni dopo: qualunque cosa sia successa, non è successa invano.
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