«Questo lago non c’era 50 anni fa».  Katey Walter Anthony, ecologista dell’università dell’Alaska-Fairbanks, immerge la sua pagaia in acqua mentre il suo kayak scivola attraverso il lago. «Anni fa, il terreno era di circa tre metri più alto ed era una foresta di abeti rossi», dice.

Laghi termocarsici 

Sergio Pitamitz

Il lago a cui fa riferimento è il Big Trail Lake, un lago termocarsico, il che significa che si è formato a causa del disgelo del permafrost. Il permafrost è un terreno che rimane ghiacciato tutto l’anno ed è composto da suolo e ghiaccio.

Nell’interno dell’Alaska questo particolare tipo di suolo possiede anche enormi “isole” di ghiaccio bloccate all’interno del permafrost stesso. Quando il ghiaccio si fonde, la superficie del suolo collassa e forma una dolina, ossia un avvallamento, che può riempirsi d'acqua. Nasce così un lago termocarsico. 

Walter Anthony è un ricercatore che collabora con il progetto Arctic Boreal Vulnerability Experiment (ABoVE) della Nasa, che sta studiando la formazione dei laghi termocarsici e come evolvono tali processi che sono strettamente legati con il cambiamento climatico della Terra. «Laghi come il Big Trail sono nuovi, giovani e sono importanti perché questi laghi sono ciò che vedremo sempre più in futuro», ha spiegato lo scienziato.

Questi laghi tuttavia, non sono solo una conseguenza, ma sono a loro volta fenomeni che producono effetto serra: essi infatti, eruttano metano nell’atmosfera, che è un potente gas serra. Per capire perché questi laghi emettono metano è necessario sapere che nel momento in cui si fonde lo strato di permafrost avvengono due fatti: innanzi tutto vi è un aumento dell’attività dei batteri, i quali, nel Big Trail Lake e in altri laghi termocarsici dell’Artico, digeriscono le piante morte e altra materia organica nel terreno precedentemente ghiacciato in un processo che produce anidride carbonica e metano. 

Il disgelo del permafrost poi, può formare “camini” sotto i laghi che consentono al metano e ad altri gas – precedentemente intrappolati in profondità nel sottosuolo – di fuoriuscire. «In inverno, il freddo dovrebbe congelare i laghi, ma bolle di metano in risalita possono impedire la formazione di ghiaccio e creare aree di acqua aperta che continuano a emettere metano per tutta la stagione. In altre zone invece, dove il freddo è molto intenso, l’acqua riesce a gelare e il metano crea cupole ghiacciate sulla superficie del lago che rilasceranno in un sol colpo tutto il metano durante il disgelo primaverile», spiega Franz Meyer, capo scienziato dell’Alaska Satellite Facility di Fairbanks.

Per studiare tutto questo la Nasa sta per dare il via al progetto Nisar, un satellite congiunto della Nasa e dell'Isro che studierà l’intero nostro Pianeta con un particolare occhio alle regioni artiche. Uno degli strumenti che vi sarà su Nisar è un radar simile allo strumento che il team ABoVE utilizza quando sorvola con aerei scientifici le regioni artiche e boreali per studiare il suolo, il ghiaccio e i laghi sottostanti.

«Le bolle che vediamo nel ghiaccio cambiano il modo con cui il segnale radar interagisce con la superficie del ghiaccio», spiega Meyer. Il radar è in grado di rilevare la rugosità di un lago, prodotta, ad esempio, proprio dalle bolle di metano congelate. I laghi termocastici possiedono un'elevata rugosità dovuta al gran numero di bolle e devono essere tenuti sotto osservazione con particolare attenzione perché tendono ad avere emissioni di metano maggiori rispetto ai laghi senza di esse. La combinazione dei dati radar aerotrasportati con le misurazioni raccolte sul campo consente agli scienziati di stimare la quantità di emissioni di laghi di metano in una vasta regione.

In Artico ci sono milioni di laghi, ma solo i più giovani rilasciano elevate quantità di metano. I laghi più antichi, quelli che hanno centinaia o migliaia di anni, quando nacquero erano come il Big Trail Lake, ma da allora i microbi hanno esaurito la decomposizione della materia organica del permafrost e quindi le emissioni ai giorni nostri sono praticamente nulle. «La vera preoccupazione per il nostro futuro, quindi, quando pensiamo alle ricadute dovute alle emissioni di carbonio dal permafrost, sono le aree che si sono scongelate da poco», afferma Walter Anthony. Proprio come il Big Trail Lake. E laghi di questo tipo stanno aumentando di numero in modo esponenziale.

L’energia del Sole sulla Terra

This image made available by NASA shows an artist's rendering of the Parker Solar Probe approaching the Sun. It's designed to take solar punishment like never before, thanks to its revolutionary heat shield that’s capable of withstanding 2,500 degrees Fahrenheit (1,370 degrees Celsius). (Steve Gribben/Johns Hopkins APL/NASA via AP)

Studi recenti finanziati dall’Esa, hanno dimostrato che il concetto chiamato Space-Based Solar Power, è teoricamente praticabile e potrebbe supportare il percorso di decarbonizzazione del settore energetico. Si tratta di catturare l’energia del Sole al di fuori della Terra, dove non vi è atmosfera che l’assorbe, per trasformarla in microonde da inviare sulla Terra per poi ritrasformarle in energia elettrica da immettere nel sistema elettrico. I tecnici tuttavia, non nascondono che vi sono ancora incertezze e sfide tecnologiche significative. 

Per questo motivo l’Agenzia spaziale europea, l’Esa, sta per are il via ad un programma di ricerca e sviluppo, chiamato Solaris per comprendere fino in fondo quanto reale possa diventare l’idea. Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia ha affermato: «Quasi la metà dei tagli alle emissioni necessari per portarci verso la decarbonizzazione totale, entro il 2050 potrebbe provenire da tecnologie che non sono ancora sul mercato e Solaris potrebbe essere una di quelle».

È noto a tutti che oltre al massiccio aumento necessario del solare e dell’eolico a terra, che sono per natura intermittenti, c’è un urgente bisogno di nuove fonti di bilanciamento della rete e di alimentazione di riserva, attualmente fornite principalmente da combustibili fossili, idroelettrico e nucleare. Pertanto, nel più ampio contesto di transizione energetica, che richiede investimenti per miliardi di euro, sono allo studio una serie di fonti alternative, tra cui la geotermia e, a più lungo termine, la fusione nucleare. Solaris aiuterà a decidere se è fattibile aggiungere l'energia solare ottenuta direttamente dallo spazio, un concetto vecchio di decenni per fornire energia pulita, a questo elenco di fonti pulite.

Il concetto è di per sé semplice come accennato sopra: satelliti opportunamente costruiti ad energia solare in orbita geostazionaria raccoglierebbero la luce del Sole in modo permanente 24 ore su 24, sette giorni su sette, quindi la convertirebbero in microonde a bassa densità di potenza che verrebbero trasmettesse in sicurezza alle stazioni riceventi sulla Terra. La fisica coinvolta significa che questi satelliti dovrebbero essere grandi, dell'ordine di diversi chilometri quadrati e lo stesso vale per le “rectenne”, le antenne così chiamate che dovranno raccogliere le microonde sulla superficie terrestre.

Tutto ciò richiede notevoli progressi tecnici in settori tecnologici come l’assemblaggio robotico nello spazio, il fotovoltaico ad alta efficienza, l’elettronica ad alta potenza e la formazione di fasci di radiofrequenza. Ovviamente si dovranno intraprendere ulteriori ricerche per confermare che non vi siano effetti negativi per l’uomo dalle microonde a bassa potenza che arriveranno dallo spazio e che ci sia piena compatibilità con il volo di aerei e satelliti. Dice Sanjay Vijendran, capofila dell’Esa per la proposta Solaris: «Queste sono le problematiche che Solaris esaminerà per esplorare ulteriormente la fattibilità del concetto, in modo che l’Europa possa prendere una decisione, nel 2025, sull’opportunità di procedere con un programma di produzione di energia solare spaziale nel prossimo futuro. Come ulteriore vantaggio, tutte le scoperte ottenute da questo lavoro saranno preziose di per sé e applicabili a molti altri campi del volo spaziale».

È necessario che si capisca che questa fonte di energia è del tutto diversa da quella che produce il solare sulla Terra, per la quantità enorme di energia che si ha a disposizione nello spazio, tant’è che in futuro potrebbe essere una seria alternativa non solo ai combustibili fossili, ma anche all’energia nucleare. Gli studi portati avanti fin qui infatti, dimostrano che la soluzione spaziale risulta essere sorprendentemente competitiva.

L’idea dell’Esa non è unica in assoluto, in quanto già in fase di studio da alcuni decenni da Stati Uniti, Cina e Giappone. Solaris, se dimostrerà la validità del sistema, permetterà all’Europa di entrare in competizione o in collaborazione con questi paesi, al fine di poter avere una fonte di energia infinita (a livello umano), con ogni condizione di tempo e in qualsiasi ora del giorno. E soprattutto di essere pulita.

Europa peggio del Sahara

Haze covers the skies of Spain due to the Celia storm and coming from the Sahara desert. (Luz Garcia / VWPics via AP Images)

L’estate del 2022 è stata caratterizzata in Europa, ma anche in molte altre parti del pianeta, da immagini di siccità e incendi provocati da ondate di calore che si sono verificati anche in molte aree le quali non erano note per tali fenomeni. Le conseguenze, oltre che economiche, hanno visto anche il decesso di circa 12mila persone.

Spiega Markus Donat dell’Icrea e del Barcelona Supercomputing Center: «Le osservazioni meteorologiche forniscono prove schiaccianti che le ondate di calore stanno diventando più frequenti e più intense in quasi tutte le regioni del mondo. E quel che è peggio è il fatto che anche le ondate di calore simultanee stanno aumentando, rendendo difficili le risposte transnazionali coordinate».

In un suo recente lavoro Donat dimostra che l’intensità e la frequenza delle ondate di calore cresceranno proporzionalmente all’aumento di ogni decimo di grado Celsius di riscaldamento globale. «Nella regione del Mediterraneo, ad esempio, le temperature estreme aumenteranno di circa 1,5 °C per ogni grado di riscaldamento globale. Se le temperature globali aumentano di 2°C, si prevede che le temperature estreme del Mediterraneo saranno 3,5 °C più calde rispetto all’era preindustriale o 6 °C più calde se il riscaldamento globale dovesse raggiungere i 4°C», afferma Donat. 

«In breve, l’Europa meridionale potrebbe vedere temperature superiori ai 50 °C nei prossimi decenni che potrebbero durare per diversi giorni». Tutto ciò implica ricadute imponenti sulla vita dell’uomo di cui è ancora difficile capire a fondo cosa gli potrà succedere dal punto di vista della salute ed economico, anche in tempi che sono molto lontani da noi

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