Le grandi aziende fossili, da Chevron a Exxon, investono decine di miliardi su grandi acquisizioni e sul consolidamento del business. Ma la transizione sta andando spedita, nel 2023 è stata installata una quota record di rinnovabili e la percentuale di combustibili fossili nocivi per il clima sta finalmente iniziando a scendere
Gli ultimi giorni sono stati un laboratorio di quanto la transizione energetica sia contraddittoria e di come chiunque provi a leggerla come un processo lineare, sostenendo che sta fallendo o che sta correndo, sia destinato a non capire davvero cosa sta succedendo. Le recenti bulimiche operazioni di investimento fossile di alcune grandi aziende oil&gas da un lato e il nuovo confortante report dell'Agenzia internazionale per l'energia dall'altro mostrano che la transizione è un processo complesso, che sembra scritto per offrire ragioni sia agli ottimisti che ai pessimisti.
Partiamo dalla notizia più recente, la pubblicazione del World Energy Outlook 2023 della IEA, lo studio annuale su cosa succede nel settore energetico. Il nuovo World Energy Outlook è la fotografia di un percorso che sta accelerando. A fine 2023 saranno stati aggiunti all'energia globale 500 gigawatt di rinnovabili, mai così tanti. Un miliardo di dollari al giorno viene investito in fotovoltaico. Un'auto venduta su cinque è elettrica (tre anni fa era una su 25). Per la prima volta le politiche correnti fanno intravedere un picco (e quindi poi un declino) di petrolio, gas e carbone già in questo decennio. Nel 2030 la quota di rinnovabili nel mix elettrico sarà vicina al 50% (oggi è il 30%). Gli investimenti in nuovi progetti eolici offshore saranno il triplo di quelli in nuove centrali elettriche a carbone e a gas.
Il problema è che le aziende che più dovrebbero essere al centro del processo continuano a opporre resistenza, e qui arriviamo allo shopping di Chevron o Exxon Mobil o i nuovi accordi trentennali di Eni. Nella scienza del clima gli scenari business as usual, cioè il «fare come si è sempre fatto», sono quelli più catastrofici, con aumenti di temperature medie globali tripli rispetto a dove siamo oggi e doppi rispetto ai limiti dell'accordo di Parigi.
Chevron ha concluso l'acquisto della concorrente Hess, un accordo da 53 miliardi di dollari tutto petrolifero e pagato in azioni (merito degli extraprofitti da crisi energetica), che permette a Chevron di espandere le sue operazioni petrolifere in Guyana e North Dakota.
Pochi giorni prima Exxon Mobil aveva comprato Pioneer Natural Resources, l'acquisizione più grande degli ultimi 25 anni, un gigante del gas estratto in territorio americano, segno che nemmeno il piano di decarbonizzazione messo in campo da Biden sta scoraggiando questo tipo di operazioni. «È una scommessa sul fatto che la policy USA non si sposterà dai combustibili fossili ancora per molto tempo», ha commentato il New York Times.
Su una scala più piccola, è significativa la data di scadenza del nuovo accordo tra Eni e Qatar Energy per il gas liquefatto: 2053, un milione di tonnellate all'anno per sfamare il rigassificatore di Piombino.
«Il World Energy Outlook mostra come le rinnovabili stiano decollando e abbiano il potenziale per rimpiazzare rapidamente i combustibili fossili, ma ogni investimento in nuove estrazioni mina e rallenta questa transizione», commenta Kelly Trout, direttrice di ricerca di Oil Change International, che aggiunge come tutte le aziende coinvolte nelle recenti acquisizioni, sia i compratori, Chevron e Exxon Mobil, che i comprati, Hess e Pioneer, fossero nella top 20 dei più attivi in nuovi investimenti nei combustibili che causano la crisi climatica. Come si può leggere questo dilemma?
Finora, nonostante lo sviluppo furibondo delle rinnovabili, la quota di carbone, petrolio e gas non era scesa, rimanendo ferma all'80%. Vuol dire che non stavamo sostituendo energia sporca con energia pulita, ma solo sommando le due, perché nel frattempo i consumi erano cresciuti e la torta si era allargata. Secondo i calcoli della IEA la quota di combustibili fossili, cioè il numero più importante di tutti, sta cominciando finalmente a scendere, e potrebbe arrivare al 73% nel 2030. Ancora troppo, ma è il segnale che l'elettrificazione porta anche una razionalizzazione, e quindi a un uso più efficiente: fare quello che facevamo prima ma usando meno energia.
Secondo Hannah Ritchie, ricercatrice dell'Università di Oxford che porta avanti il progetto Our World in Data, questo è il processo chiave: il consumo energetico in un mondo post-transizione scende del 40%, da 416 a 247 ExaJoule. Anche secondo IEA i consumi primari caleranno dell'1,5% ogni anno da qui al 2030, per le stesse dinamiche: elettrificazione ed efficienza.
Al momento tutti stanno facendo la propria scommessa. I giganti oil&gas non credono agli impegni dei governi (né tanto meno ai propri) e puntano a un mondo in cui si continueranno a consumare petrolio e gas. Inflazione e crisi energetica li hanno riempiti di cash, che stanno usando per consolidare il business invece che cambiarlo. Il ministro saudita per l'energia, Abdulaziz bin Salman, che non ha un'opinione pubblica a cui mentire, ha commentato: «Non penso che comprerebbero asset che hanno in mente di congelare a breve». Secondo la IEA, stanno buttando i propri soldi, oltre a «scommettere sul disastro climatico», come dice Trout di Oil Change International.
Un'altra lettura importante dei dati IEA è sulla ricerca tecnologica. La decarbonizzazione dell'energia può essere divisa in due parti: quella facile e quella difficile. La parte facile (dove ovviamente ci vogliono molte virgolette) comprende produzione di elettricità, riscaldamento degli edifici, automobili: qui i numeri sono confortanti, abbiamo la tecnologia, abbiamo le soluzioni, ma è necessario combattere l'inerzia e le resistenze, è una questione di volontà politica contro gli investimenti convenienti nel presente ma senza futuro industriale (oltre che tossici per il clima) di Chevron, Exxon, Eni, che rischiano di rallentare un processo che sta invece decollando.
Ma poi c'è la parte difficile, i settori su cui non sappiamo ancora come ridurre le emissioni, gli enigmi tecnologici: aviazione, trasporto marittimo, industria pesante. Anche qui però non servono più petrolio e gas, ma più ricerca. La buona notizia è che nel 2021 ci mancavano soluzioni per il 50% della torta energetica, già due anni dopo siamo a corto di tecnologia «solo» per il 35%. Ed è un altro dato che può nutrire allo stesso modo le narrazioni di ottimisti e pessimisti.
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