Tanto su Nettuno quanto su Urano la formazione dei cristalli di diamanti è resa possibile da due fattori presenti nelle profondità delle loro atmosfere: le elevate pressioni e le alte temperature
Se un giorno l’uomo dovesse riuscire a costruire un’astronave in grado di penetrare l’atmosfera di Nettuno o di Urano, allora si potrebbe provare l’esperienza di attraversare una pioggia composta da diamanti. E stando a una nuova ricerca, condotta da un gruppo internazionale di scienziati e pubblicata su Nature Astronomy, i pianeti dove raccogliere “diamanti per sempre” sarebbero molto numerosi.
Tanto su Nettuno quanto su Urano la formazione dei cristalli di diamanti è resa possibile da due fattori presenti nelle profondità delle loro atmosfere: le elevate pressioni e le alte temperature. Queste condizioni scompongono gli idrocarburi come il metano nei singoli atomi, consentendo a quelli del carbonio di unirsi tra loro a formare molecole di diamante allo stato solido, le quali a loro volta possono dare origine a strutture via via più grandi.
Sulla base delle ricerche realizzate nell’ultimo studio – in cui i processi di formazione dei diamanti sono stati simulati in ambienti di laboratorio – si è scoperto che le temperature e le pressioni per dare vita alla formazione dei diamanti risultano inferiori rispetto a quanto si pensava precedentemente.
Dove piovono diamanti
Ciò renderebbe possibile precipitazioni di diamanti non solo sui grandi pianeti come Urano, ma anche sui pianeti gassosi simili ma più piccoli, quelli che gli astronomi chiamano “mini Nettuno”. Di questi pianeti al momento ne sono stati scoperti a centinaia al di fuori del nostro sistema solare. Sottolinea Siegfried Glenzer dello Slac National Accelerator Laboratory a capo della ricerca: «Questa scoperta non solo approfondisce la nostra conoscenza circa i nostri pianeti ghiacciati locali, ma ha anche implicazioni per la comprensione di processi simili negli esopianeti oltre il nostro Sistema Solare».
Quanto scoperto da Glenzer e dai suoi colleghi potrebbe anche spiegare alcune caratteristiche incomprensibili sui campi magnetici di Urano e Nettuno. Per capire questo bisogna aprire una parentesi. I ricercatori hanno utilizzato l’Xfel europeo (l’Xfel è uno strumento lungo 3,4 chilometri il quale produce lampi di raggi X estremamente intensi) per monitorare i diamanti che sono stati prodotti partendo da una pellicola di polistirene composta da idrocarburi, la quale è stata ripetutamente sottoposta a enormi pressioni in una struttura simile a una morsa.
Tale struttura ha permesso ai ricercatori di osservare il processo più a lungo di quanto fosse stato possibile negli esperimenti precedenti. Si è così giunti a comprendere che, anche se la pressione intensa e le temperature molto calde sono assolutamente necessarie, potrebbero non essere così estreme come si ipotizzava.
Portando quanto scoperto ai nostri pianeti e a quelli di altri sistemi solari, ciò permette di sostenere che i diamanti potrebbero formarsi a una profondità inferiore a quella stimata dagli scienziati. Non solo: in quanto le particelle di diamante, che una volta formatesi cadono verso il centro del pianeta trascinando con sé gas e ghiaccio, potrebbero influenzare i campi magnetici dei pianeti stessi in modo significativo. A differenza della Terra, i pianeti come Nettuno e Urano non hanno campi magnetici simmetrici.
Ciò finora era un mistero da risolvere. Gli astronomi avevano già ipotizzato che i campi magnetici non si formano nel nucleo planetario (come per la Terra), ma nell’atmosfera stessa; ora la presenza dei diamanti in caduta libera potrebbe aiutare a spiegare tale anomalia. Sottolinea Mungo Frost, dello Slac National Accelerator Laboratory: «Quanto osservato permette di ipotizzare che il fenomeno dei diamanti potrebbe originare movimenti all’interno dei ghiacci conduttivi presenti su questi pianeti, influenzando la generazione dei loro campi magnetici». In altre parole si verrebbero a creare correnti elettriche che darebbero origine a dei campi elettrici, ma proprio perché caotici non darebbero origine a campi magnetici simmetrici.
Il report sulle rinnovabili
Non c’è dubbio che nei prossimi tre anni – salvo eventi catastrofici – aumenterà senza sosta la richiesta di energia elettrica, ma quel che è interessante è il fatto che il consumo aggiuntivo di energia sarà coperto in gran parte da fonti a basse emissioni. Questo stando a un rapporto pubblicato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). Il rapporto, chiamato “Electricity 2024”, della Iea prevede che l’energia rinnovabile supererà l’uso mondiale del carbone entro l’inizio del 2025 e rappresenterà più di un terzo della produzione totale di elettricità mondiale. Stando a Scientific American, che ha pubblicato i dati di questo articolo, si prevede che la produzione di energia nucleare raggiungerà livelli record entro il 2025, riprendendosi dai recenti cali.
Entro il 2026, poi, le energie rinnovabili e il nucleare rappresenteranno quasi la metà della produzione mondiale di energia. Un balzo in avanti inaspettato se si pensa che solo l’anno scorso erano meno del 40 per cento. Il direttore esecutivo della Iea, Fatih Birol, ha affermato in una dichiarazione che è «incoraggiante che la rapida crescita delle energie rinnovabili e una costante espansione dell’energia nucleare siano insieme sulla buona strada per soddisfare l’aumento della domanda globale di elettricità nei prossimi tre anni.
Ciò è in gran parte dovuto all’enorme slancio dato alle energie rinnovabili, con il solare sempre più economico in testa, e al sostegno derivante dall’importante ritorno dell’energia nucleare, la cui produzione è destinata a raggiungere un massimo storico entro il 2025. Sebbene siano necessari ulteriori progressi, e rapidi, queste sono tendenze molto promettenti».
Il cambiamento nella produzione di energia elettrica ridurrà le emissioni del settore energetico – attualmente la più grande fonte mondiale di emissioni di anidride carbonica – anche se la domanda aumenta, ha affermato la Iea. Secondo l’agenzia, la domanda di elettricità è cresciuta solo del 2,2 per cento a livello globale nel 2023, inferiore all’aumento del 2,4 per cento dell’anno precedente, ma si prevede che la domanda accelererà, con una media annua del 3,4 per cento tra il 2024 e il 2026. Ma cosa fa dire che vi sarà un tale aumento? Una serie di elementi, tra cui l’elettrificazione delle case e delle imprese, il ruolo crescente dei veicoli elettrici e la crescita industriale in generale.
E le altre fonti? Nonostante la tendenza verso quelle a emissioni zero, l’energia elettrica alimentata a gas naturale è destinata ad aumentare leggermente nell’arco di tre anni sostituendo l’energia a carbone. L’Europa è stata responsabile di forti cali nell’energia prodotta dal gas, rileva il rapporto, ma ciò è stato compensato dalla crescita negli Stati Uniti e dai guadagni previsti in Asia, Africa e Medio Oriente grazie alla disponibilità di fornitura di gas naturale liquefatto.
Tuttavia, si prevede che i combustibili fossili scenderanno al 54 per cento della produzione globale nel 2026. Questo calo rappresenterebbe una «pietra miliare importante», ha affermato Eren Çam, uno degli autori del rapporto. Gli autori del rapporto, comunque, hanno messo in guardia sui potenziali punti critici che potrebbero attenuare le tendenze verso l’energia pulita. Ad esempio, lo scorso anno le condizioni di siccità e la precoce fusione delle nevi hanno indebolito la produzione di energia idroelettrica in tutto il mondo.
La barriera corallina più grande
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare la più grande barriera corallina finora conosciuta si trova nell’oceano Atlantico, esattamente nel Blake Plateau al largo della costa sud-orientale degli Stati Uniti, e finalmente è stata completamente mappata per la prima volta. Si estende su una superficie di circa 27.000 km² e si distende a una profondità compresa tra i 200 e i 1.000 m dalla superficie del mare.
Per realizzare questa impresa sottomarina sono state necessarie 23 missioni scientifiche subacquee e 31 campagne di rilevamento sonar realizzate in superficie dall’Amministrazione nazionale per gli oceani e l’atmosfera (Noaa) degli Stati Uniti. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Geomatics. Spiega Kasey Cantwell, responsabile delle operazioni oceaniche del Noaa: «Ci sono voluti più di dieci anni di esplorazione sottomarina per capire che quel plateau è costituito da uno dei più grandi habitat di barriera corallina in acque profonde presenti sul nostro pianeta. È possibile che ce ne siano altri, ma quello è davvero molto importante».
C’è una grande varietà di coralli che per la maggior parte non vive con alghe colorate come è tipico delle barriere coralline più vicine alla superficie del mare, e questo le rende più pallide rispetto alle loro cugine.
Pur tuttavia sono un mondo incredibile di riparo e protezione per una vastissima varietà di pesci e invertebrati. Lungo la direzione della corrente della Florida e la corrente del Golfo sono stati individuati gli ammassi di corallo più densi ed estesi, e questo grazie al fatto che vi sono correnti calde che trasportano importanti quantità di sostanze nutrienti.
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