“Quando terminerà questo caldo” è l’argomento di conversazione probabilmente più diffuso in questi giorni in ogni angolo del mondo. L’ultimo ennesimo record battuto è quello della giornata più calda della storia, il 22 luglio quando la temperatura media sulla superficie terrestre ha superato i 17,16 gradi secondo i monitoraggi di Copernicus, il programma di osservazione della terra dell’Unione europea.

E forse per la prima volta ci stiamo rendendo conto che non avremo più estati come quelle che abbiamo conosciuto in passato, ma una stagione in balia di ondate di calore che possono permanere a lungo, alternarsi e incrociare perturbazioni procurando temporali improvvisi. E poi di nuovo caldo, umidità e periodi di siccità.

Ma come ci stiamo preparando per questo scenario? Soprattutto, perché a pagarne le maggiori conseguenze, silenziosamente, saranno i soggetti più fragili, come tra qualche mese ci racconteranno le analisi epidemiologiche di ricoveri e decessi.

Cosa fare

La prima domanda che occorrerebbe porsi è se si può fare qualcosa. E la risposta è positiva, anzi dobbiamo combattere un approccio riduzionista e fatalista, secondo la tesi che in fondo ha sempre fatto caldo. Che tra qualche settimana anche questa estate passerà e si parlerà d’altro. Perché quello che oramai le analisi dimostrano con sempre maggiore chiarezza sono le conseguenze delle ondate di calore.

Meno impressionanti e seguite dalla cronaca rispetto a alluvioni e cicloni, ma con molti più morti e disagi tra chi è più debole, come i bambini e gli anziani, o chi sta in carcere. In queste settimane di luglio, in cui le scuole primarie sono aperte, capita sempre più spesso che i bambini siano rimandati a casa. Perché diventa impossibile portare avanti le attività in strutture in cui le temperature percepite sono tali da creare malori e svenimenti.

Eppure, basterebbe installare delle semplici pompe di calore o apparecchi per raffrescare l’aria, in modo da rendere questi spazi, come anche i centri anziani, vivibili durante i mesi estivi. Il problema è che se un comune italiano volesse investire su questi impianti non avrebbe incentivi a cui attingere, dovrebbe finanziare gli interventi e indebitarsi.

Nel paese dei Superbonus non si ragiona mai per priorità di intervento o obiettivi che si vogliono realizzare. Per cui questi interventi sono incentivati – fino al 65 per cento – ma solo nell’ambito di ristrutturazioni che prevedano la sostituzione di impianti esistenti.

Eppure, se riconosciamo che questa situazione non è accettabile e che potrà solo peggiorare, dobbiamo comportarci di conseguenza. Oltretutto il governo avrebbe l’occasione pronta per intervenire, visto che è in corso di revisione l’incentivo per gli interventi di efficientamento energetico degli edifici pubblici, il Conto Termico.

L’altra priorità di intervento dovrebbe essere l’aiuto agli anziani che vivono soli, ai portatori di patologie a rischio che non possono permettersi l’aria condizionata, e che nelle notti tropicali faticano a recuperare le forze dopo una giornata di caldo intenso. Altrimenti le nostre città assomiglieranno sempre di più a quelle statunitensi, dove il dato statistico racconta di un calo della mortalità a seguito delle ondate di calore.

Ma perché si riduce tra coloro che installano l’aria condizionata, mentre aumenta esponenzialmente nei quartieri ghetto più poveri. Possiamo però scegliere di copiare da altri Paesi europei in cui ci sono politiche di supporto che funzionano, con incentivi e microprestiti per chi si trova in difficoltà.

La seconda questione riguarda invece lo spazio fuori dalle case, ossia le strade e le piazze in cui l’asfalto di giorno assorbe calore raggiungendo temperature altissime e che di notte restituiscono contribuendo a scaldare l’aria.

A Roma, in giornate come quelle di questi giorni si possono trovare differenze di oltre 7 gradi tra le aree verdi più esterne e i quartieri più densi e senza alberi. Anche qui la risposta è sì, possiamo cambiare una situazione di cui siamo responsabili avendo costruito male, e che oggi diventa insostenibile perché si somma all’aumento del caldo globale. S

ono tanti e sempre più diffusi nel mondo i progetti di ridisegno di piazze e parchi dove si è riusciti a ridurre la temperatura di molti gradi, piantando alberi, aumentando le superfici ombreggiate, recuperando la permeabilità dei suoli e le acque meteoriche, scegliendo i materiali con il migliore albedo.

I rischi

Qualcosa lo cominceremo a vedere con i cantieri del Pnrr, dove si finanziano importanti interventi di forestazione urbana, ma anche parchi e progetti di riqualificazione di spazi aperti, di efficientamento di edifici, nuove piste ciclabili. Ma dal 2026 rischia di fermarsi tutto. Perché progetti con questo approccio e ambizione vanno pensati e programmati per tempo, e soprattutto finanziati.

L’equivoco italiano è che nel dibattito politico questi interventi sono considerati di interesse locale, un problema dei sindaci. Ma basterebbe guardare a un paese per tanti motivi simile al nostro, come la Spagna, per verificare quanto questo modo di ragionare sia sbagliato e controproducente.

Il bellissimo progetto di riqualificazione del fiume Manzanarre a Madrid, come quelli delle piazze di Siviglia e delle spiagge di Barcellona, dei rifugi climatici realizzati in diverse città per aiutare le persone durante le ore diurne, sono dentro un processo di confronto costante con le autorità statali, di supporto tecnico e finanziario.

Il governo Meloni a gennaio aveva assicurato che da noi l’ambito per discutere e supportare progetti dei comuni sarebbe stato il Piano nazionale di adattamento climatico che il governo ha approvato a dicembre.

Purtroppo, non sono previste priorità di intervento o risorse a disposizione, e non è stato ancora istituito l’Osservatorio che è l’unico organo in cui sono rappresentati i sindaci, attraverso l’Anci. Se la destra ha un evidente problema a parlare di clima, quanto a lungo può continuare a far finta che questi problemi non esistano?

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