E(U)xploitation, il nuovo rapporto di Terra! sul caporalato si concentra sull’Europa, con un focus su Italia, Grecia e Spagna, segue il lungo fil rouge dello sfruttamento nelle campagne dell'Europa mediterranea, denunciando un fenomeno che fa della vulnerabilità dei braccianti il proprio punto di forza
- Lavoro grigio, assenza di contratti, sfruttamento sessuale, violenza ed emarginazione. La condizione dei braccianti nei tre paesi dell’Europa mediterranea è simile e drammatica.
- Con questa nuova indagine sul campo, Terra! chiede che il caporalato e le disfunzioni di filiera vengano affrontati non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo.
- i paesi oggetto dell’indagine, hanno condiviso le più importanti trasformazioni del settore agricolo a partire dalla fine degli anni Ottanta e dopo la Grande Recessione: verticalizzazione delle filiere, graduale defamilizzazione delle aziende, invecchiamento degli agricoltori, scarso turnover e impiego di manodopera di origine straniera.
Una landa brulla con pochi tronchi inceneriti e tubi in plastica disseminati ovunque. È quel che resta di un insediamento informale, abitato da lavoratrici e lavoratori stagionali, raggiunto dalle fiamme di un incendio. Potrebbe essere la foto di accompagnamento dell'ennesima notizia di cronaca che arriva da uno dei ghetti del Sud Italia. In realtà siamo in Spagna, a Palos de la Frontera, nella provincia andalusa di Huelva, da dove nel 1492 le tre caravelle di Cristoforo Colombo salparono verso il “Nuovo Mondo”. Mentre qui, nel 2021, di “nuovo” non c'è niente. Lo scorso venerdì, in uno dei tanti insediamenti della provincia, abitati da lavoratori perlopiù maghrebini -con un'altissima percentuale di presenza femminile- impiegati nella raccolta di fragole, delle 500 baracche in plastica e legno, 300 sono state distrutte dal fuoco.
Il nuovo rapporto di Terra!, “E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia”, che sarà presentato su Facebook mercoledì 24 febbraio alle 18:30, segue il lungo fil rouge dello sfruttamento nelle campagne dell'Europa mediterranea, in piena crisi sanitaria. Il lavoro di denuncia di questi anni, nei ghetti e lungo le filiere agroalimentari del nostro Paese, ci ha spinto ad alzare lo sguardo all'Europa per testimoniare la gravità di un fenomeno che non si ferma nelle campagne italiane del Sud.
Con le dovute distinzioni, Italia, Grecia e Spagna, i paesi oggetto dell’indagine, hanno condiviso le più importanti trasformazioni del settore agricolo a partire dalla fine degli anni Ottanta e dopo la Grande Recessione: verticalizzazione delle filiere, graduale defamilizzazione delle aziende, invecchiamento degli agricoltori, scarso turnover e impiego di manodopera di origine straniera.
In Europa le irregolarità si celano sotto sistemi apparentemente rodati e spesso avallati dalle istituzioni.
Il 2020, l'anno che ci ha segregato nelle nostre case, ci ha aiutato a mettere a fuoco gli intrecci globali di natura economica, sociale e sanitaria in cui siamo immersi. Bloccare la mobilità ha avuto conseguenze per tutta la filiera: per i braccianti che non hanno potuto lavorare o sono rimasti in Europa per mesi, senza poter tornare a casa; per i produttori che non avevano forza lavoro disponibile e per i supermercati che dovevano garantire l'approvvigionamento alimentare. Il Covid- 19 ha messo a nudo le criticità del comparto, con aziende agricole piccole e medie a soffrire gli effetti delle restrizioni e le grandi catene a macinare profitti. Una polarizzazione a cui l'Unione sta lentamente trovando un argine, tanto da intervenire con una Direttiva (633/2019) che vieta quanto meno le pratiche commerciali sleali messe in campo dalla Gdo nei confronti di produttori e consumatori.
L’Italia del lavoro grigio
L'indagine italiana si sofferma su tre aree produttive del Sud Italia: l'Agro Pontino, la regione corrispondente alla pianura pontina nel Lazio; la Piana del Sele, l'area che si estende lungo gli argini dell'omonimo fiume, nella provincia di Salerno in Campania; il Foggiano, la vasta provincia che si sviluppa intorno alla città di Foggia, nel Nord della regione Puglia.
Fabio Ciconte e Stefano Liberti che hanno svolto l’indagine nel nostro paese, percorrono quel Sud in cui ha origine buona parte della produzione ortofrutticola nazionale, dove nonostante ciò, lo sviluppo del settore procede con lentezza. Da qui arriva infatti solo il 30 per cento delle esportazioni agroalimentari italiane e nell’area si registra un quarto degli investimenti agricoli totali.
La forte disgregazione tra gli addetti del settore, la scarsità di politiche di filiera e la mancanza di organizzazione del lavoro sono le cause principali della fragilità del comparto. E su di esse prospera e si rafforza la Grande Distribuzione Organizzata, che commercializza a livello nazionale il 70 per cento dei prodotti agroalimentari, vincolando i fornitori a dure condizioni contrattuali. Tra queste, le aste al doppio ribasso, su cui, grazie alle pressioni di Terra!, è stato elaborato un disegno di legge correttivo che ora attende di essere approvato in via definitiva dal Parlamento.
Ma i problemi non si limitano a questo. Tra le serre e i campi aperti delle tre aree indagate, si nascondono irregolarità e sfruttamento di lavoratori perlopiù stranieri. Il boom della manodopera straniera è nei numeri. secondo uno studio del Crea, infatti, il numero degli italiani dediti all’agricoltura, dal 1989 ad oggi, si è ridotto di due terzi, mentre quello degli stranieri è cresciuto di 15 volte.
Lo sfruttamento in Italia ha tanti nomi: dal caporalato alle cooperative senza terra, dalle agenzie interinali ai contratti irregolari. Il lavoro a cottimo è presente perlopiù nell’Agro Pontino, dove i pagamenti sono erogati in base ai “mazzetti” di ortaggi raccolti, che seguendo tabelle informali, vengono poi convertiti in giornate lavorate.
Nel Foggiano, è particolarmente noto il fenomeno dei “falsi braccianti” e delle “imprese intermediatrici fittizie”. Imprese che non svolgono attività agricola e che hanno il compito di inserire negli elenchi agricoli persone che, pur non essendo braccianti, riescono ad accedere ai sussidi dell’Inps. Ma è il lavoro grigio la piaga più preoccupante, perché riguarda l’intero comparto agricolo del Paese e si basa su un tacito - e spesso obbligato - accordo tra il lavoratore e l'imprenditore agricolo: il primo si assicura un lavoro continuativo ma non registra tutte le giornate. In questo modo, non solo paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità, ma si tutela di fronte a eventuali controlli degli ispettori del lavoro.
Il lavoratore, dal canto suo, se fortunato potrà godere della disoccupazione agricola se raggiunge un numero minimo di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Le restanti vengono pagate in nero. Il lavoro grigio configura un rapporto lavorativo basato sul ricatto, meno conosciuto rispetto al caporalato, fenomeno per cui l'Italia resta nota in buona compagnia. In particolare nel Foggiano, i lavoratori stranieri impiegati nella raccolta del pomodoro e dell'asparago, vivono stipati in baracche di plastica e legno, nei cosiddetti “ghetti”, luoghi privi di diritti, lontani dai centri abitati, senza il minimo servizio. È qui che il caporale forma la squadra di lavoratori, la trasporta nei campi, provvede al vitto e in cambio del servizio, trattiene una percentuale della paga dei braccianti. Un lavoro che supplisce alla mancanza di servizi adeguati, che dovrebbero essere garantiti dalle istituzioni.
La legge “anti-caporalato” del 2016 introduce pene molto severe non solo per il caporale, ma anche per l'imprenditore che se ne serve e sfrutta la manodopera. Dopo 4 anni dalla sua approvazione, la parte repressiva della norma è quella che ha avuto maggiore successo, aumentando ispezioni, arresti e sanzioni. Sulla parte preventiva, resta ancora molto lavoro da fare.
L’“uberizzazione” dell'agricoltura spagnola
Il cuore dell'indagine sulla Spagna è il sistema di reclutamento dei lavoratori agricoli. Formalmente regolare, perché previsto dalla legge, si tratta di un meccanismo diffuso in tutto il Paese, che trincerandosi dietro l’utilizzo di agenzie interinali veicola in realtà violenza e sfruttamento. L'istantanea che ci offre Mariangela Paone è quella di Murcia, nel Sud-Est della Spagna, che con i suoi quasi 470 mila ettari di terreni agricoli è nota come la “huerta de Europa”, l'orto d'Europa.
Le agenzie ETT (Empresas de Trabajo Temporal) sono fortemente utilizzate da grandi imprese con attività intensiva nei periodi dei picchi produttivi. Ed è questo il motivo di tanto successo: esse rintracciano lavoratori in abbondanza e in tempi rapidi. Ma le ETT sono diventate un business, specie in agricoltura: nel 2019 a Murcia, dei 490 mila contratti firmati nel settore, 366 mila sono stati fatti tramite ETT, quasi il 75 per cento. Cifre ben note ai sindacati spagnoli, come la CC OO e l' UGT, che accusano le imprese di affidarsi a queste agenzie per non avere oneri e le ETT di non applicare il contratto collettivo di settore, procedura a cui sono obbligate per legge.
Una situazione che si acutizza soprattutto se le imprese sono grandi, magari con capitale estero, con una produzione massificata, poco esperte del lavoro agricolo, più tendenti a passare per queste agenzie. Come denuncia l'associazione di produttori COAG, in Spagna si va affermando da anni un processo di “uberizzazione”, cioè di concentrazione del potere e ricchezza in oligopoli, a cui corrisponde sempre più un'“agricoltura senza agricoltori”. Poche grandi imprese infatti- appena il 6,5 per cento dei proprietari di aziende agricole contro il 94,5 per cento di persone fisiche- catalizza il 42 per cento del valore di produzione. E questo impoverimento progressivo degli agricoltori spinge verso una compressione dei costi di manodopera bracciantile per mantenere la competitività.
Ma da dove arriva una parte della forza lavoro spagnola? Dal reclutamento diretto di lavoratori in paesi terzi, tramite la cosiddetta contratación en origen, una specificità della Spagna salutata dall'Europa come un modello, quasi completamente assorbita dalle migliaia di contratti fatti in Marocco per portare manodopera a Huelva, la provincia andalusa dove si concentra la quasi totalità della produzione nazionale di fragole, di cui la Spagna è primo esportatore mondiale.
Un sistema nato alla fine degli anni '90, quando le aziende a conduzione familiare si trasformano in produzioni intensive. Grazie ad un'inchiesta della rivista tedesca Correctiv, in collaborazione con BuzzFeedNews, nel 2018 sono state rese pubbliche le denunce di abusi sessuali e di sfruttamento da parte delle temporeras marocchine.
La logica della contratación en origen infatti non prevede solo il reclutamento ma anche l'imposizione di condizioni fortemente discriminanti, che se violate, portano anche alla rottura del rapporto di lavoro. E questo, per molti lavoratori, vuol dire miseria.
Grecia: sfruttamento senza controllo
In Grecia, le piccole e medie imprese sono il 98,4 per cento del totale. Questa caratteristica ha una forte ricaduta sui rapporti commerciali tra produttori e gruppi distributivi e, quindi, sul costo e sulle condizioni del lavoro in agricoltura. La forte atomizzazione degli anelli della filiera è infatti una delle debolezze più pesanti del comparto, che come effetto ha la minore capacità di produzione e la sudditanza nei confronti delle catene dei supermercati. Apostolis Fotiadis, curatore dell’indagine nella penisola ellenica, raccoglie le testimonianze di tutti i rappresentanti della catena e ciò che emerge è una deregolamentazione imperante, in cui si inserisce lo strapotere dei gruppi distributivi, che stabiliscono il prezzo sulla base del volume di produzione e dei tempi di consegna.
Per anni, la Gdo greca e gli importatori di altri Paesi UE hanno privilegiato il rispetto degli standard qualitativi di produzione, chiudendo un occhio su quelli lavorativi e sociali. Non è raro che imprese in cui è comprovato lo sfruttamento della manodopera, parallelamente riescano a conservare una facciata di legittimità e alti standard di qualità.
L' assenza di un adeguato sistema di controlli in agricoltura è una delle cause di questa deriva. In realtà, un organismo ispettivo esiste ed è il SEPE, che non riesce a controllare molto nella produzione agricola perché privo degli strumenti adeguati.
La mancanza di un quadro legislativo coerente e una serie di disposizioni confuse rendono difficile capire anche come dovrebbero essere dichiarati i lavoratori agricoli e come bisognerebbe dichiarare in modo trasparente la quantità di ore lavorate. Il sistema dei voucher, che la Grecia ha attinto dal resto d'Europa, crea più di una zona d'ombra.
I braccianti infatti appaiono nel database solo quando i datori di lavoro acquistano un voucher assicurativo a loro nome. Il pagamento di questo contrassegno avviene sempre alla fine del periodo lavorato, così i giorni dichiarati non corrispondono quasi mai alla realtà.
Secondo l'EKKE (il Centro Nazionale per la Ricerca sociale), il 90 per cento della manodopera è composta da migranti. In caso di bisogno, i datori di lavoro potrebbero assumere braccianti che non risiedono legalmente nel Paese e che non hanno un permesso di lavoro. Ma solo un lavoratore su dieci ha accesso a questa possibilità.
Oltre la pandemia, un futuro precario
Poco meno di un anno fa, gli assalti ai supermercati, le restrizioni alla mobilità di migliaia di lavoratori stagionali e gli scioperi dei produttori, scuotevano aziende e governi, preoccupati di restare senza manodopera nei campi e di non riuscire a far fronte alla crescente domanda dei consumatori.
Al sopraggiungere del Covid-19, lo sguardo del settore e dell'intera società ha quindi per un attimo oltrepassato gli scaffali dei supermercati, e si è rivolto a quegli “invisibili” di cui sono piene le campagne europee. “Invisibili” diventati improvvisamente “essenziali”. Ma la vita di chi lavora nelle campagne non è mai cambiata veramente e lo “spettro dello sfruttamento” continua ad aggirarsi per l'Europa.
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