Una nuova ricerca dimostra come gli ecosistemi equatoriali siano profondamente mutati. Vi è una forte diminuzioni di specie all’equatore e una maggiore concentrazione nelle aree tropicali con una fuga verso aree più fresche
- Lo studio ha interessato 48.661 specie di pesci, crostacei e molluschi che vivono sia sul fondo del mare, sia in mare aperto e anche se le specie pelagiche (quelle che vivono nell’acqua) si sono mosse maggiormente rispetto a quelle bentoniche (che vivono sui fondali), lo spostamento della “vita marina” è evidentissima per tutte.
- Il fenomeno è più incisivo nell’emisfero settentrionale rispetto a quello meridionale. Ciò è spiegato dal fatto che il riscaldamento degli oceani è stato maggiore nell’emisfero settentrionale rispetto a quello meridionale
- Il lavoro di Chhaya Chaudhary dell’università di Aucklandudhary conferma ulteriormente che da alcuni decenni a questa parte il numero di specie all’equatore sta scendendo.
Un nuovo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences e realizzato da un gruppo internazionale di scienziati documenta come la vita marina abbia mutato la propria distribuzione a partire dall’equatore a causa dei cambiamenti climatici in atto. La ricerca conferma ciò che da anni sostenevano i biologi, secondo i quali, dagli anni Cinquanta ad oggi, il numero di specie che vivevano all’equatore è diminuito, mentre è aumentato verso i tropici. E questo ha interessato tutte le 48.661 specie di pesci, crostacei e molluschi che sono stati studiati sia che vivono sul fondo del mare, sia in mare aperto. Spiega Chhaya Chaudhary dell’università di Auckland: «I risultati della nostra ricerca dimostrano che le specie pelagiche (ossia quelle che vivono nei mari) si sono spostate maggiormente rispetto a quelle bentoniche (ossia quelle che vivono aggrappate ai fondali marini) e che il fenomeno è più incisivo nell’emisfero settentrionale rispetto a quello meridionale. Ma ciò è spiegato dal fatto che il riscaldamento degli oceani è stato maggiore nell’emisfero a nord del pianeta rispetto a quello meridionale». Lo studio ha preso in considerazione i dati forniti dall’Ocean biodiversity information system (Obis), un database mondiale la cui istituzione è stata guidata da Mark Costello – anche lui dell’Università di Auckland – come parte di un programma globale di scoperta marina realizzato dal 2000 al 2010. Il lavoro di Chaudhary conferma ulteriormente quanto aveva già in parte messo in luce Costello pochi mesi fa, quando in uno studio dimostrava che la biodiversità marina aveva raggiunto il picco all’equatore durante l’ultima era glaciale, 20mila anni fa, poi si era appiattita prima del riscaldamento globale industriale. «Il mio nuovo studio – dice Chaudhary – dimostra che tale appiattimento è continuato nel secolo scorso, ma da alcuni decenni a questa parte il numero di specie all’equatore sta scendendo». I ricercatori neozelandesi fanno presente che più di una ricerca dimostra che il numero di specie marine diminuisce una volta che la temperatura media annuale del mare è superiore a 20, 25 gradi. La nuova ricerca dice che se poi le temperature non scendono di molto le specie che sono migrate non tornano più negli ecosistemi abbandonati.
Tempeste geomagnetiche
Se si pensa che le tempeste geomagnetiche siano cose di altri mondi ci si sbaglia di grosso. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Space Weather dimostra che violenti tempeste solari possono colpire il nostro pianeta con una frequenza doppia rispetto a quanto si pensava in precedenza. È giunto a questa conclusione Jeffrey Love dello Us geological survey, che ha analizzato le più forti tempeste geomagnetiche della Terra dall’inizio del 1900. Studi precedenti si erano spinti non oltre gli anni Cinquanta. Le tempeste geomagnetiche sono conseguenza di esplosioni solari che emettono enormi quantità di particelle che se indirizzate verso la Terra possono colpire satelliti, reti elettriche e reti di trasmissioni di ogni genere, mettendoli anche fuori uso se l’intensità è molto elevata. Lo studio ha portato ad una sorpresa che è stata così spiegata da Love: «Intense tempeste geomagnetiche come, ad esempio, quella che causò il blackout del Québec del 1989 si verificano, in media, una volta ogni quattro cicli solari (che hanno periodi di circa 11 anni). Si tratta di una frequenza doppia rispetto a quanto stimato utilizzando solo il set di dati più breve». Love ha trascorso gli ultimi anni a scavare a fondo nei documenti storici: un lavoro molto complesso. Non è stato semplice, infatti, trovare e analizzare vecchi registri dove sono state descritte le attività magnetiche. Per fare un esempio: «Il mio collega, Hisashi Hayakawa – spiega Love –, ha scoperto che una copia dell’annuario Vassouras (una sintesi annuale dei dati magnetici) era conservata in un archivio giapponese gestito dal World Data Center di Kyoto. In quell’annuario c’è una copia di un magnetogramma di cui avevo bisogno. Ma era frammentato, capovolto ed etichettato male. Interpretarlo è stato come risolvere un rebus. Solo dopo averlo digitalizzato ho potuto stimare l’intensità della tempesta solare che si verificò nel 1921».
Dopo ricerche simili Love è stato in grado di mettere insieme un elenco degli eventi più intensi. Poi sono iniziati gli studi statistici. I metodi usati da Love non sono nuovi, di per sé, ma sono nuovi nel campo della meteorologia spaziale. Lo scienziato comunque, desiderava capire, tra le altre cose, se la tempesta magnetica che colpì il Quebec il 13 marzo 1989, mettendo fuori uso la rete elettrica di Hydro-Quebed facendo precipitare nell’oscurità milioni di canadesi fosse un fenomeno eccezionale o meno. Ebbene dai dati che ne sono scaturiti, a differenza di quel che si pensava, ossia che tali tempeste avessero ritmi secolari, Love ha scoperto che si verificano mediamente una volta ogni 45 anni. In altre parole, la possibilità che si verifichino tempeste geomagnetiche in grado di mettere in crisi uno o più paesi dal punto di vista tecnologico è più che raddoppiata rispetto a quanto si ipotizzava.
Un minimo di speranza
Tra le tante ricerche che ci mostrano il futuro del pianeta certamente non roseo, ce n’è una apparsa in questi giorni che forse apre a un po’ di speranza. Utilizzando una nuova simulazione del modello climatico a risoluzione molto elevata, ossia in grado di definire i dettagli delle variazioni climatiche con grande risoluzione, gli scienziati dell’Università di Utrecht hanno riscontrato che l’aumento della temperatura degli oceani sarà più lenta rispetto alle attuali simulazioni. Di conseguenza, la crescita prevista del livello del mare in 100 anni sarebbe inferiore di circa il 25 per cento rispetto a quanto formulato dalle simulazioni più ricorrenti. Questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.
Pittori allucinati nella preistoria
È risaputo che molti artisti hanno prodotto le loro opere principali sotto l’influenza di droghe. Van Gogh si ubriacava di assenzio, Charles Baudelaire si concedeva hashish e oppio mentre Francis Picabia dipingeva i suoi dipinti psichedelici durante le allucinazioni dovute agli oppiacei. Per non parlare dell’lsd che era di gran moda negli anni Cinquanta nel mondo artistico. Tuttavia è possibile che anche nel lontano passato gli uomini preistorici dipingessero in uno stato alterato della propria coscienza, forse senza rendersene conto fino in fondo. Lo sostiene Yafit Kedar, ricercatore dell’Università di Tel Aviv e autore di uno studio pubblicato sulla rivista Time and mind: the journal of archaeology, consciousness and culture. Secondo la sua ipotesi, gli uomini che hanno dipinto sulle pareti di molte grotte del Paleolitico superiore (tra 50mila e 12mila anni fa) non si trovavano nel loro stato di coscienza normale, ma era alterato. Nessuna droga però, ma più semplicemente a causa della mancanza di ossigeno. Per avventurarsi nelle grotte più profonde infatti, dovevano avanzare con delle torce le quali, consumando l’ossigeno, avrebbero indotto uno stato di ipossia nel cervello. Spiega Kedar: «L’ipossia aumenta la produzione di dopamina, la quale potrebbe aver immerso i pittori delle caverne in uno stato alterato di coscienza, sperimentando euforia, esperienze extracorporee e forse anche allucinazioni. Queste esperienze li avrebbero aiutati ad attingere a livelli più profondi di creatività e a relazionarsi con il cosmo». Durante le visite a diverse grotte europee, Kedar è stato colpito dai dipinti disegnati in luoghi quasi inaccessibili. «Perché questi uomini si sono inoltrati nell’oscurità, così isolati, a volte anche per oltre un chilometro dall’ingresso? – dice Kedar al quotidiano israeliano Haaretz – Alcune grotte sono spaventose, hanno passaggi molto stretti. Forse lo avrebbero fatto di proposito, perché solo là dentro si sarebbero resi conto che percepivano uno stordimento che produceva allucinazioni e li aiutava ad avere accesso a esperienze spirituali». Kedar ha simulato al computer l’effetto delle torce sulle concentrazioni di ossigeno in spazi chiusi come quelli nelle grotte paleolitiche e ha scoperto che i livelli di ossigeno in molte grotte scendono rapidamente a meno del 18 per cento di quello che è presente normalmente all’aria aperta, oltre la soglia che induce ipossia negli esseri umani. Questo potrebbe spiegare perché alcuni strani disegni sembrano essere più simbolici che figurativi.
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